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Intervenire militarmente in Libia: no, forse e se sì a quali condizioni? Dubbi apparentemente solo europei, ma che stanno entrando anche nel dibattito della campagna elettorale per le presidenziali americane, con alcune schermaglie tra i due battistrada democratico e repubblicano, l’ex segretario di Stato Hillary Clinton e il magnate Donald Trump. Queste tensioni sono tuttavia solo una parte delle divergenze, e delle opposte strategie, che emergono da tempo nei due principali schieramenti politici d’Oltreoceano.

L’EDITORIALE DEL WAPO

In un editoriale di Jackson Diehl pubblicato sul Washington Post, quotidiano vicino a posizioni conservatrici, si mette in risalto come – visto il prossimo avvicendamento nello Studio Ovale – probabilmente il dossier libico sia un problema destinato a rimanere in stand-by e a finire sulla scrivania del prossimo inquilino della Casa Bianca; ma anche che il responsabile del caos attuale abbia un nome e un cognome precisi: Barack Obama. Per  il giornale americano, sono molti gli errori commessi su questo tema dal presidente in carica, reo (in Libia come altrove) di aver adottato una politica troppo poco interventista, o, peggio, altalenante e di aver poi fatto anche mea culpa. Se il peccato mortale – ricordato anche in un racconto in due parti del filo democratico New York Times – risiede principalmente nell’aver abbandonato il Paese a se stesso dopo l’intervento del 2011 contro le forze del rais Muammar Gheddafi aperto da Francia e Regno Unito (allora la Clinton era segretario di Stato, lo è stata dal 2009 al 2013), ve ne sono altri forse veniali, ma ugualmente rilevanti. Ad esempio l’aver puntato, in una seconda fase, su politici libici moderati in esilio, di formazione anglosassone, che avevano promesso di essere in grado di riprendere in breve tempo il controllo del Paese; o l’errore (il medesimo commesso in Iraq) di focalizzarsi sui negoziati politici e di ignorare le montanti problematiche di sicurezza, l’humus attraverso il quale lo Stato Islamico ha attecchito, tanto da aver spostato oggi molte attività dal Medio Oriente alla nazione nordafricana (si parla di circa 5mila affiliati, anche se Karim Mezran, analista esperto di Libia dell’Atlantic Council le ritiene esagerate).

GLI ATTACCHI DI TRUMP E CRUZ

La questione libica è anche al centro di alcuni degli attacchi riservati a Hillary Clinton da Donald Trump, candidato oggi favorito alla nomination del Gop. Sebbene il magnate abbia più volte cambiato opinione sull’intervento statunitense in Libia (a suo tempo caldeggiato, ricorda Associated Press, oggi condannato) e nonostante la sua ascesa sia considerata sempre più un pericolo per lo stesso Partito Repubblicano, il miliardario dalle parole poco politically correct tocca un nervo scoperto dell’amministrazione Obama e della candidatura della moglie di Bill, a cui viene rinfacciata anche, da alcuni conservatori, la scarsa protezione riservata all’allora ambasciatore Usa nel Paese, Christopher Stevens, morto nel 2012 a Bengasi durante un assalto alla sede consolare americana. Altri candidati invece, come il senatore texano Ted Cruzricorda Slate – sostengono che sarebbe stato meglio che Gheddafi rimanesse al suo posto, per evitare il vuoto di potere che poi si è generato.

L’IDEA DELLA CLINTON

Non è dato sapere che idea abbia la Clinton di un possibile nuovo intervento in Libia. Finora si è guardata dall’esprimere una posizione netta, premurandosi piuttosto di parare i colpi che gli sono arrivati. Alla Cbs l’ex segretario di Stato ha spiegato che intervenire nel 2011 non fu sbagliato perché non far nulla “avrebbe probabilmente trasformato la Libia in un’altra Siria”, ovvero in una situazione “molto più pericolosa” di quella attuale. Ma sull’Huffington Post il giornalista e saggista Daniel Williams ricorda alcuni commenti, che descrivono la Clinton come una sostenitrice del fatto che “il potere americano debba contribuire a fare del bene nel mondo”, lasciando intendere che con lei alla Casa Bianca sia lecito attendersi un maggiore interventismo, quanto meno in situazioni di crisi conclamata e irreversibile senza lo strumento militare.

LA STRATEGIA DEMOCRATICA

Di certo i democratici, sottolinea Politico, si dimostrano convinti nelle dichiarazioni ufficiali che la strategia prudente adottata da Obama sia stata quella giusta, anche in virtù del nuovo posizionamento americano che prevede sempre più azioni mirate e sempre meno scarponi sul terreno. In un suo recente intervento a Bruxelles, dove a inizio febbraio si è tenuta una ministeriale Nato sul contrasto ai fermenti jihadisti dell’Isis, il segretario alla Difesa Usa Ashton Carter, ha invitato i membri della coalizione anti Daesh a “intensificare i propri sforzi”. Nonostante si moltiplichino voci – qui riportate dal Sunday Telegraph – di un intervento statunitense in Libia (dove Washington è comunque presente con Forze speciali assieme a Francia e Regno Unito, e, forse a breve, a quelle italiane), la Casa Bianca ha sinora smentito, rivendicando, anzi, quanto fatto finora.  Gli Stati Uniti – ha spiegato ai giornalisti il portavoce di Obama, John Earnest – sono stati parte attiva nel tentativo di aiutare i libici a formare un governo centrale, e che ci sono stati progressi su questo fronte. Ha anche notato che Washington non è stata ferma, ma ha preso provvedimenti contro lo Stato Islamico in Libia, comprendenti una serie di raid che hanno eliminato leader di alto livello del gruppo jihadista nel Paese. Ma Earnest ha anche indicato che, sulla scia di quanto fatto finora in Siria e in Iraq, qualsiasi futuro intervento americano in Libia non dovrebbe includere un dispiegamento significativo di truppe di terra americane, ma mirare piuttosto a un supporto, anche d’intelligence, a chi combatte sul terreno i drappi neri.

Ecco come democratici e repubblicani Usa si dividono sulla Libia

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