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Dopo ciò che è accaduto a Parigi è del tutto improbabile un ritorno alla normalità, se per normalità si intende fingere che l’Europa non sia stata colpita, ancora e più pesantemente, dalla guerra ibrida del califfato. Una guerra caratterizzata da pervasività, diffusione e delocalizzazione che ci impone un lungo e faticoso processo per la creazione di una nuova normalità, principalmente frutto della capacità di analisi e prevenzione delle strategie del terrorismo. In questo panorama mutato diventa quindi fondamentale capire quali possano essere gli obiettivi a cui la strategia del terrore punta per mettere a segno i propri attacchi, in modo da poter predisporre un apparato di sicurezza che ne riduca al minimo i rischi.

La protezione di quelle che vengono definite infrastrutture critiche è da sempre uno dei cardini attorno a cui ruota la sicurezza nazionale di un Paese. Produzione e distribuzione di energie, telecomunicazioni, banche e trasporti sono, infatti, servizi la cui interruzione, seppure parziale, può destabilizzare anche in maniera significativa il normale funzionamento di un Paese. È per questo motivo che, da tempo, per le maggiori infrastrutture critiche – già debitamente securizzate – esistono dei piani di emergenza che contemplano in maniera specifica il rischio di attacchi terroristici.
La sfida che la guerra ibrida pone oggi, però, è diversa. Mantenendo salda la necessità di garantire la sicurezza di questi sistemi, è sempre più frequente riferirsi ai possibili t​arget del terrorismo come obiettivi sensibili. È evidente che le infrastrutture critiche vengano ricomprese in questo gruppo allargato di t​arget, ​ma ciò che si aggiunge è ciò che impone un ripensamento del sistema di sicurezza. Infatti la cronaca recente ci ha mostrato come siano stati scelti sia t​arget s​ia hard sia s​oft: ​i primi, luoghi per cui è già in essere un dispositivo di sicurezza che può essere, a necessità, rafforzato; i secondi, spazi cittadini per i quali non esiste un sistema stabile di presidio.

È noto che il terrorismo sia comunicazione. Una comunicazione che mira a destabilizzare la quotidianità, il vissuto di ognuna delle sue vittime indirette. È per questo che la strategia operativa della scelta del t​arget diventa allo stesso tempo una strategia comunicativa, della quale Daesh ha dato prova di avere ottima padronanza. Lavoro, divertimento, salute ed educazione sono le sfere che quotidianamente intersecano la nostra vita e colpire lì significa mettere a segno un duro colpo alla normalità. La redazione di C​harlie Hebdo, ​luogo di lavoro; Rezgui a Susa nel r​esort, turismo; Parigi, sette punti di divertimento; r​esort a Bamako, turismo; centro di assistenza per disabili a San Bernardino, sanità.
I luoghi colpiti, che ora diventano categorie di obiettivi sensibili, si moltiplicano e si identificano sempre più con spazi per cui non è possibile, se non in maniera limitata, ipotizzare un sistema di controllo simile a quello riservato per le infrastrutture critiche.

Il ripensamento delle strategie di contrasto al terrorismo deve prendere atto della necessità di formulare risposte adeguate alla pervasività e alla delocalizzazione della guerra in atto. Il sistema di sicurezza deve quindi essere sempre più pervasivo, allargandosi e comprendendo la popolazione civile, in un’ottica di sensibilizzazione e prevenzione. Non solo l’impiego di forze di polizia, dunque, ma un’i​ntelligence diffusa che coinvolga anche la cittadinanza in un rapporto di reciproca informazione. Lo s​logan “i​f you see something, say something”​ che è stato utilizzato per una campagna nata su indicazione del dipartimento di Sicurezza nazionale americano nel 2010 torna oggi più che mai a essere un utile strumento – al quale la popolazione va educata – per il controllo del territorio, per intercettare quei segnali che denotino potenziali situazioni anomale.

È infatti nella facilitazione del reperimento e dello scambio di informazioni che si gioca la partita della prevenzione, l’unica che possa efficacemente ridurre il rischio di attacchi. Il rischio zero non esiste, come è stato più volte ribadito dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ma può essere sensibilmente ridotto grazie alla condivisione delle informazioni. Il potenziamento disposto dei servizi di i​ntelligence,​con una specifica attenzione al w​eb come strumento per la diffusione di propaganda e di radicalizzazione, è una necessaria implementazione che però resta sterile se non viene accompagnata da una politica sovranazionale di i​nformation sharing,​quantomeno tra i vari servizi di informazione europei
– ancora troppo nazionalistici – e a un panorama legislativo democratico forte che garantisca poteri particolari di indagine, salvaguardando i diritti dei cittadini.

E qui, sulle libertà e diritti dei cittadini, entra in gioco la delocalizzazione della guerra ibrida, una guerra che non si combatte solo in Siria, né tantomeno è fatta di soli attori r​eturnees.​ Da un certo punto di vista, il nuovo pacchetto antiterrorismo fornisce utili strumenti per interrompere il flusso che dall’Europa porta aspiranti radicali a pianificare l’egira verso i territori di Daesh in Siria. Si dovrà comunque discutere, alla luce dei risultati delle indagini sugli attacchi di Parigi, su come assicurare che coloro che liberamente si muovono per il territorio europeo non lo facciano per organizzare attacchi. Il fenomeno di auto­radicalizzazione, unito a una propaganda che incentiva il j​ihad anche senza richiedere necessariamente il passaggio dalla Siria per l’addestramento, infatti, impone livelli di sorveglianza e di monitoraggio sicuramente non nuovi, ma che devono essere declinati in maniera specifica per l’oggetto affinché possano essere pienamente efficaci.

Ecco gli obiettivi di Isis

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