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Fra i motivi per cui Umberto Eco si è conquistato un posto nell’empireo della cultura mondiale vi è anche il geniale modo con cui sciolse uno dei dilemmi del suo tempo: il tema della comunicazione di massa. Erano gli anni ’60 del XX secolo e gli intellettuali erano spaccati tra chi riteneva che i mass media fossero il nuovo oppio dei popoli e chi li reputava un fattore di libertà. Con una formula che farà storia, Umberto Eco battezzò i due fronti contrapposti con due etichette incisive: apocalittici ed integrati.

Tra i primi, il semiologo faceva rientrare coloro che attribuivano agli strumenti della comunicazione una innata capacità di manipolazione, come dimostrava la recente esperienze dei regimi nazifascisti che irreggimentarono i media facendone un formidabile strumento per la cattura del consenso popolare ma anche la comunicazione pubblicitaria e la sua persuasione occulta. In entrambi i casi i pubblici dei media erano considerati ricettori passivi dei messaggi e suggerirono a fucine di studiosi la tesi di una società di massa teleguidata dai detentori del potere della comunicazione.

Pur non insensibile a queste argomentazioni, Eco seppe però fornire spunti anche alla tesi opposta, secondo cui la comunicazione di massa stava dando vita ad una nuova modalità di integrare le nazioni nella società tecnologicamente avanzata. A fornire nutrimento agli uomini e donne del dopoguerra era una materia prima nuova, la cultura popolare, fatta di uno sfrangiato insieme di format e contenuti mediatici di modesta ambizione culturale ma ad elevata capacità di intrattenimento. Erano quelli che un collega di Eco, Roland Barthes, definì “i miti d’oggi”: un calderone di oggetti e simboli che unificavano città e campagne in un contagioso desiderio di condivisione.

La storia successiva ha indotto non pochi apocalittici a rivedere le proprie concezioni, costretti a constatare che la loro distopia orwelliana si stava sgretolando sotto i loro occhi. Lungi dal divenire burattini di un potere occulto o diligenti clienti di multinazionali rapaci, i fruitori dei media si stratificarono in variopinti club e generazioni, animati da un tripudio di passioni su cui nessun sociologo avrebbe mai potuto operare una reductio ad unum. Il colpo di grazia agli apocalittici lo diede però l’evoluzione tecnologica, che moltiplicando le opzioni a disposizione degli utenti, e introducendo l’interattività, scacciò definitivamente l’incubo dell’uomo a una dimensione. L’avvento di internet e dei social media avrebbe messo la pietra tombale a ogni ipotesi di potere centralizzato che controlla il sapere e trasforma i cittadini in altrettanti automi privati della facoltà di pensiero e di parola.

Sui social network, in verità, Umberto Eco è stato poco lusinghiero, parlando di una “invasione di imbecilli” che hanno ora “lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel”. Il che conferma comunque la tesi, coraggiosamente difesa dal semiologo in tempi non sospetti, che le tecnologie della comunicazione ampliano il campo di libertà degli esseri umani anziché rinchiuderli in gabbie per pappagalli.

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