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(Il primo e il secondo articolo della serie sul rapporto della Commissione Fioroni si possono leggere rispettivamente qui e qui)

Ammetto che fui fra gli scettici, come il mio amico Mario Sechi, quando comparvero le prime notizie sulla decisione della nuova commissione d’inchiesta parlamentare sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro di riaprire anche il capitolo del bar all’angolo tra via Fani e via Stresa. Dietro le cui fioriere la mattina del 16 marzo 1978 si erano nascosti i brigatisti rossi travestiti da avieri per assaltare le auto su cui viaggiavano il presidente della Dc e la scorta. Di quel bar – noto come Olivetti, dal cognome di uno dei proprietari, di nome Tullio – si era tanto scritto e discusso, all’epoca del sequestro e dopo, che mi parve curioso il tentativo di scoprire qualcosa ancora di inedito.

Sbagliavo. La lettura dei passaggi della prima relazione del presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni, a poco più di un anno dall’inizio delle indagini e a circa uno dalla fine, salvo proroghe, mi ha fatto drizzare i capelli. E vi spiego, anzi vi racconto, perché.

E’ quanto meno inquietante la storia di quel bar, frequentato per un po’ anche dalla scorta di Moro, almeno sino a quando il maresciallo non notò qualcosa di talmente strano da sconsigliare alla figlia dello statista, Maria Fida, che ogni tanto vi andava pure lei, di mettervi più piede.

Il caso  – o solo il caso? – volle che quel locale chiudesse per fallimento nell’estate del 1977. E chiuso apparve, o fu, anche quella mattina. Eppure, a sequestro appena avvenuto, a quel bar potettero accedere per consumare qualcosa e fare le telefonate di servizio alle loro testate giornalisti e operatori televisivi. Alcuni dei quali, ascoltati dalla commissione, hanno raccontato di esserne poi stati bruscamente allontanati, ma non prima di avere notato, fra i presenti, “tre persone – dice Fioroni nella relazione – dai tratti somatici del Nord Europa che, tenuto conto delle uniformi dell’aeronautica da essi indossate e da alcune parole pronunciate da uno di loro, potevano provenire da un’area geografica di lingua tedesca”.

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Tedesche furono anche quelle grida di “achtung, acthung” ascoltate in via Fani nella fase finale dell’azione dei brigatisti dalla testimone Eleonora Guglielmo.

Tedesche erano le targhe di un pullmino e di un’auto con uomini armati avvistate a Viterbo qualche giorno dopo il sequestro di Moro dal maresciallo dei Carabinieri Roberto Lauricella e segnalate alla Questura locale, dove il sottufficiale fu interrogato il 6 aprile. Seguirono anche deposizioni giudiziarie. Di almeno una di quelle targhe, il 18 maggio successivo, la polizia locale rinvenne in Germania resti bruciacchiati durante una perquisizione in una tipografia, non riuscendo però a ottenere risposte di chiarimento dal titolare.

Tedesca era anche la nota terrorista Elisabeth von Dyck uccisa il 4 maggio 1979 a Norimberga in un conflitto a fuoco con la polizia , che le trovò addosso – riferisce Fioroni nella sua relazione- “una carta d’identità e una patente italiane falsamente intestate a tale Fiorella Marabucci, persona risultata completamente estranea agli ambienti terroristici”. Ma “il modulo di tale carta d’identità –si legge ancora nella relazione di Fioroni- faceva parte di uno stock di moduli in bianco rubati nel 1972 a Sala Comacina (Como)”, due dei quali “furono rinvenuti” nel 1978, durante il sequestro Moro, nel covo brigatista romano di via Gradoli, scoperto dalla Polizia per una curiosissima perdita d’acqua dalla doccia. Era la base a disposizione di Mario Moretti, il capo dell’operazione del sequestro di Moro.

Tedeschi erano anche gli otto milioni di marchi, provenienti da un sequestro in Germania e riciclati in Italia proprio da Tullio Olivetti, indicato in “atti della polizia di prevenzione” come un trafficante di valuta dal trafficante d’armi Guardigli, finito nel 1977 sotto indagine giudiziaria con una ventina di persone e arrestato. “Ma Tullio Olivetti non venne colpito da alcun provvedimento”, annota Fioroni nella relazione. Probabilmente gli inquirenti diedero credito ad una perizia psichiatrica del criminologo Aldo Semerari, destinato ad essere ucciso nel 1982, e fatto trovare decapitato in auto a Ottaviano nei pressi dell’abitazione del camorrista Vincenzo Casillo, braccio destro di Raffaele Cutolo. In quella perizia Guardigli, la cui compagna Maria Pia Lavo aveva fatto parte peraltro della segretaria di Franco Evangelisti, il noto sottosegretario di Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, venne definito “una personalità mitomane, con una condizione psicopatica di vecchia data e, allo stato, permanente”, per cui “i suoi atti e le sue dichiarazioni sono espressioni sintomatologiche di tale anomalia”.

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Insomma, nella strada del sequestro di Moro c’erano troppe tracce e ombre tedesche. Oltre al colonnello dei servizi  segreti italiani Camillo Guglielmi, presente la mattina del 16 marzo 1978 da quelle parti per fare visita con la moglie ad un collega e trattenervisi a casa per colazione, anche lui finito, per quanto ormai morto, sotto le lenti della Commissione presieduta da Fioroni. Per non parlare degli altri misteri di quella maledetta strada e in quella non meno maledetta mattina: i due passeggeri della Honda passata dopo la strage per verificare la situazione, le fotografie scattate durante o dopo il sequestro dall’appartamento in cui abitava la giornalista Cristina Rossi, affrettatasi a consegnarne il rullino al magistrato Luciano Infelisi. Ma esso si perse, diciamo così, nei cassetti degli uffici giudiziari.

E siamo ancora in via Fani e a quella mattina. Figuratevi il resto, successo ormai lontano da via Fani, in quei 55 giorni che precedettero l’ultimo atto della tragedia: l’uccisione di Moro nella Renault rossa posteggiata nel box del covo brigatista di via Montalcini, e poi lasciata in sosta in via Caetani, a mezza strada, simbolica e di fatto, fra le sedi nazionali della Dc e del Pci. E tutto questo mentre il presidente della Repubblica Giovanni Leone si accingeva a concedere autonomamente la grazia ad una terrorista, Paola Besuschio, contenuta nell’elenco dei 13 detenuti con i quali i brigatisti rossi avevano reclamato di scambiare Moro.

Di quella grazia, i terroristi furono avvertiti in tempo per accelerare l’uccisione dell’ostaggio, evitando di dividersi, ancor più di quanto già non fossero, nella valutazione della sua congruità per il rilascio del prigioniero.

Forza, Fioroni e la commissione d’inchiesta parlamentare che presiede. Buon anno, e buon lavoro.

Moro

Sequestro Moro, tutte le ombre descritte dalla Commissione Fioroni

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