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In questi ultimi mesi, in particolare dallo scorso settembre, quando è partita la consultazione della Buona Scuola, abbiamo assistito ad un alternarsi di proteste e contrapposizioni esasperate tra le forze politiche e le forze sociali, tra i sindacati e il Governo. Tutte le parti in campo ripetono, come in un monologo, che la scuola è il punto di partenza per una vera inversione di rotta nella nostra società, che l’Italia deve ripartire dalla scuola; eppure, ogni qualvolta si mette mano ad un tentativo di cambiamento, si incontrano tenaci resistenze e opposizioni che hanno il sapore di posizioni personali da sostenere, a prescindere da fattori oggettivi e supportati da analisi tecniche.

Tali preconcetti non hanno dato alcun contributo concreto al rinnovamento, un cammino che deve vederci tutti attivi e corresponsabili nella realizzazione di una scuola che ha l’arduo compito di dover preparare le nuove generazioni ad affrontare un futuro sempre più difficoltoso a livello economico, sociale e valoriale (la crisi, infatti, è essenzialmente valoriale). Insomma, la scuola è un tema che domanda una cultura della responsabilità e una volontà trasversale, non un braccio di ferro che serve solo a difendere interessi di parte. Per comprendere le logiche contrapposte di chi guarda al bene comune e di chi invece guarda al proprio tornaconto, porto alcuni esempi che mostrano come alcuni passaggi della prima bozza della legge siano stati eliminati o svuotati del loro contenuto a causa di resistenze ideologiche.  Il primo esempio riguarda il Comitato di valutazione dei docenti: mentre si è  salvato il principio che anche gli studenti e i genitori hanno diritto di dire la loro in riferimento alla qualità delle prestazioni professionali che ricevono nella scuola, si è perso, durante i passaggi parlamentari, gran parte del suo valore effettivo. Inizialmente era previsto che due docenti e due genitori affiancassero il dirigente nell’assegnare il premio al merito e nel valutare l’anno di prova dei docenti neoassunti; nella stesura definitiva della legge i docenti sono diventati quattro, collocando in secondo piano il ruolo della famiglia. Allora la domanda resta sempre la stessa: a chi fa paura la libertà di scelta educativa della famiglia? Qui non sembrerebbe al Governo… ma piuttosto: ai docenti? Ai sindacati? Certamente non ai bravi docenti che si vedono trattati come quei loro colleghi che tali non si possono definire. Connesso con il tema della valutazione è il capitolo relativo al merito e alla valutazione.

Difatti dal DDL scuola alla Legge 107 è scomparsa l’ipotesi di una progressione economica basata sul merito e non solo sull’anzianità, sostituita da un bonus annuale di piccole dimensioni (200 milioni).  Certamente va osservato che in Italia, attualmente, il sistema di valutazione spesso non è né serio né competente, perché  la piaga del clientelismo rappresenta ancora una minaccia reale.  Allora la battaglia da combattere pervicacemente  è  contro la rete clientelare, non contro il  merito e la valutazione. L’Italia è il paese che ha  il numero di docenti più alto rispetto all’Europa ma  sono i peggio pagati. Per arrivare ad un effettivo mutamento, occorre  paradossalmente attuare semplicemente  quanto la Costituzione dichiara sin dal 1948: garantire l’esercizio della libertà di scelta educativa in un contesto di reale pluralismo educativo.

Garantire tutto questo domanda energia per realizzare obiettivi – che pesanti fardelli ereditati dal passato, ormai davvero anacronistici, impediscono di  raggiungere – quali: a)  eliminazione del precariato a vita, del tutto anticostituzionale; b) efficacia ed efficienza dei servizi anche in rapporto ai costi; c)  flessibilità dei ruoli in relazione alle esigenze delle nuove tecnologie; d) merito dei docenti e della valutazione delle scuole; e) direzione didattica che sia una reale leadership educativa; f) strutture agibili e sicure; g) potenziamento delle competenze scientifiche e linguistiche degli studenti; h) apertura della comunità scolastica al territorio e, per gli alunni, degli stage in azienda; I) autonomia scolastica, realtà oggi più sulla carta che effettiva.

Occorre chiedersi come mai quelli che gridano in nome della difesa della libertà di insegnamento non si siano posti il problema di scardinare un sistema che vieta il raggiungimento degli obiettivi sopra elencati e abbiano invece  – misteriosamente – puntato al ribasso.  E’ chiaro come, alla base di tutto, sta la questione della libertà di scelta educativa, diritto che può essere esercitato solo ed esclusivamente in un pluralismo educativo come sancito dalla Costituzione all’art. 33 e all’art. 118, in base ai quali si evince che deve essere definito “pubblico”ciò che è fatto per l’interesse della collettività e che pertanto non implica necessariamente e solo la gestione statale.

In questo ambito chi non intende le ragioni del diritto, intenderà quelle dell’economia: le famiglie che scelgono la scuola pubblica paritaria pagano e le tasse che contribuiscono al funzionamento della scuola pubblica statale (del cui servizio però non usufruiscono) e le rette per contribuire (in minima parte) alla gestione della scuola dove hanno deciso di formare i loro figli. Dunque, triplo vantaggio per le casse statali: 1) offrono un gettito di imposta per la scuola statale a fondo perduto; 2) fanno risparmiare ben sei miliardi di euro allo Stato, costituenti un’entrata a fronte della mancata spesa per l’istruzione, 3) formano per la collettività cittadini in grado di produrre ricchezza con il loro lavoro. Attualmente, i cittadini lavoratori formati dalle scuole pubbliche paritarie non sono costati un centesimo allo Stato: semplicemente lo arricchiscono, sono, potremmo dire, convenienti. Si crea pertanto, ancora una volta, una situazione discriminante, cittadini di serie A e cittadini di serie B, situazione che non può sussistere in una democrazia. In questa ottica ben venga la detrazione fiscale nel breve periodo, che si perfezioni speditamente verso la definizione del  costo standard per allievo, fattore di efficienza e di sostenibilità nel buco nero della pubblica istruzione.

Detrazioni fiscali di 76 euro annui per una famiglia che manda i figli in una scuola pubblica paritaria, a fronte del costo di un allievo alla scuola statale di ben 8.000 euro annui solo di spese correnti, mi pare una cifra ben meno che simbolica – e comunque garantisce per la prima volta un diritto in capo alla famiglia. Entrambe le famiglie (della paritaria e della statale) hanno pagato le tasse per un sistema scolastico integrato e plurale. Poi, se quello che fa problema è che vi siano scuole cattoliche – anche se lo abbiamo detto in tutte le lingue del mondo che la scuola pubblica paritaria è sia cattolica, sia laica, sia ebraica ecc. – si dia alla famiglia la possibilità di scegliere, e se nessuna di queste scuole sarà scelta, chiuderanno la loro attività per mancanza di allievi e si dedicheranno ad altro. Ma chiuderanno non a causa di una difficoltà economica, chiuderanno perché la loro offerta formativa non ha più nulla da dire e da comunicare.  Se i detrattori della scuola paritaria sono così certi della loro idea raccolgano la sfida che forse questo governo ha lanciato. Si badi bene: la laicità pura non teme mai il confronto e, se non genera autentica libertà di scelta, smette di chiamarsi laicità, per chiamarsi dittatura. Bisogna solo uscire dal circolo vizioso che contrappone scuola statale e scuola paritaria.  La Buona Scuola è fatta dai buoni docenti; agli studenti e alla famiglia la possibilità di scegliere in un sistema pluralista. Pluralismo domanda scuole pubbliche statali e scuole pubbliche  paritarie. Altrimenti non è Buona Scuola bensì scuola Unica (che sa di regime).

Si comprenderà come la logica conseguenza di quanto sopra affermato è il puntare al superamento dell’attuale sistema scolastico italiano che ha questi tre grossi limiti: è regionalista (risultiamo agli ultimi posti Ocse, però la Lombardia arriva ben oltre la media Ocse; e la Campania? ben al di sotto),  è classista (dopo aver pagato le tasse, la famiglia italiana, se non può pagare la seconda volta, non può accedere alla scuola paritaria benché questa faccia parte a pieno titolo del medesimo sistema scolastico integrato),  è discriminatorio (il bambino portatore di handicap nella scuola pubblica paritaria non ha il docente di sostegno assicurato come nella scuola statale, contro ogni pari opportunità e integrazione).

L’homo ideologicus del corteo dichiari apertamente che l’individuo, la famiglia non ha il diritto di scegliere l’educazione per il proprio figlio e pertanto non ne ha la responsabilità; quindi deve essere interdetta e lo Stato deve intervenire in sua vece.  Questo è il ragionamento da farsi se la logica aristotelica ha ancora un suo valore.

Altro punto che ha sollevato polemiche e levate di scudi  è quello relativo al ruolo del Dirigente scolastico   in nome del timore di arrivare a quello che è stato definito il “preside sceriffo”. Un termine connotato negativamente, coniato ad hoc per bruciare questa novità, di grande portata, che la riforma in modo intelligente ha voluto introdurre, per il timore di un eccessivo accentramento di poteri. La battaglia da compiere era quella di porre, piuttosto, il problema del controllo dell’operato dei dirigenti scolastici. E’ chiaro a chi ha davvero interesse a rilanciare il sistema scolastico italiano per liberarlo dal pericolo di un sistema piatto e basilare, incapace di emergere,  che, se il preside non è messo in condizione di scegliere secondo una progettualità condivisa tra docenti, famiglie e territorio, ogni scuola non arriverà nemmeno ad avere una parvenza di identità. Semplicemente: finirà di esistere. I poteri che si vogliono affidare al Dirigente scolastico consentono un maggiore radicamento nel territorio della scuola con il tentativo, ad esempio, di abbattere il problema della dispersione scolastica. La legge prevede l’organico dell’autonomia, ovvero un certo numero di docenti assegnati alle scuole per il potenziamento dell’insegnamento curricolare: occasione per offrire una proposta formativa davvero più rispondente ai bisogni dei ragazzi.  Difatti il sistema degli ambiti territoriali offre ai dirigenti e alle scuole la possibilità di inserire nel proprio organico nuovi docenti non in base a rigide e astratte graduatorie, ma creando l’incontro tra Piano dell’Offerta Formativa e competenze specifiche degli insegnanti. Cade così l’autoreferenzialità di un sistema fondato prevalentemente sulle problematiche occupazionali per tornare alla missione fondante della scuola: l’educazione e la formazione dello studente.

Senz’altro positivi sono poi l’intento di superare definitivamente l’annosa questione delle graduatorie ad esaurimento e la previsione del reclutamento statale solo mediante concorso. I 150 mila precari sono il frutto di scelte politiche ispirate ad una logica assistenziale che vedeva la scuola come il più importante ammortizzatore sociale; chi ora sembra stupirsi forse dovrebbe ricordarsi che i problemi vanno risolti non solo creati e, quando ci presentano il conto, c’è poco da stupirsi.

In estrema sintesi i problemi sono davvero tanti e solo cittadini responsabili possono pretendere una politica responsabile. Questo percorso lo dimostra; se ne prenda atto con onestà.

Si chiude una fase di riforme annunciate; ora ad essere chiamata in causa, più di prima, è la responsabilità dei soggetti – dirigenti, docenti, famiglie, realtà sociali – di interpretare ed utilizzare in maniera intelligente le nuove norme nella prospettiva di un cambiamento di sostanza e non di facciata arroccato sul baluardo  della difesa delle  proprie posizioni.

 

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