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Grazie all’autorizzazione di Class Editori, pubblichiamo questo articolo di Riccardo Ruggeri uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Per anni ho giudicato Marchionne secondo le categorie del management classico, giudizi rispettosi, a volte critici, mentre come investitore ero, e sono, molto soddisfatto delle sue performance. Solo nel 2012, all’annuncio del mirabolante progetto «Fabbrica Italia», capii l’uomo. Era una versione originale del leader 2.0: lo troviamo, oltre che nel business, in politica, nell’arte contemporanea, persino in alcuni celebri chef.

I suoi piani strategici, uno all’anno (sic!), che altro erano se non, estremizzando, momenti di alta comunicazione? In un mio libro ho raccontato l’ipnosi, collettiva e singola, di parte dei nostri politici, sindacalisti, intellettuali, a fronte delle sue gesta. Soprattutto, grazie a lui, l’Italia è entrata, guidata da un baldanzoso Renzi, nel «ceo-capitalism».

Due mesi fa, da grande seduttore quale è, Ruggeri aveva parlato a Goiana (Pernambuco), si era fatto profeta per costringere i suoi competitor a cambiare modello di business, procedere cioè a un consolidamento fra di loro. Mi chiesi allora: possibile che un raffinato negoziatore come Marchionne faccia l’errore di offrirsi? E ancora, come altri analisti, sarà mica che il suo Piano 2014-18 proceda arrancando troppo?

Teniamo poi presente, e Marchionne lo sa, che:

a) è seduto su un «picco» del mercato americano (quanto durerà? Chissà. Ad ogni modo, questo sarebbe comunque il momento di tacere e mettere fieno in cascina);

b) incombe l’evoluzione dell’auto come contenitore di servizi di bordo, e investimenti a seguire.

Pensavo che a Goiana avesse tentato la mossa del Cavallo, invece no, ora è chiaro, ha deciso di muovere la Regina.

Malgrado il no secco del ceo di Gm, e relativo board, Marchionne va avanti determinato, ma sta cambiando strategia, come sottolinea il WSJ: fa forti pressioni, seppur sotto forma di una curiosa Opa aggressiva ma verbale, per convincere tutti gli azionisti Gm a sostenerlo.

Mi rifiuto di credere a una fusione alla pari Gm-Fca. La prima, Gn, ha infatti una capitalizzazione di 56 mld $ contro i 20 di Fca, oltre al fatto che:

a) sul mercato americano i margini di Fca sono del 3,7%, la metà rispetto a Gm;

b) i bond Fca essendo giudicati (tuttora) junk (spazzatura) comportano interessi più alti, quindi sono penalizzanti.

In conclusione, Gm capitalizza quasi il triplo di Fca e guadagna il doppio. È impraticabile quindi la fusione fra pari, resta la vendita, però alle condizioni del compratore.

Come investitore Fca, condivido la mossa di Marchionne, questo è uno snodo drammatico e strategico per Fca. Io, al suo posto, cosa farei? Partirei da due assunzioni:

a) il Piano 2014 di Fca sta arrancando troppo: inaccettabile;

b) l’unico consolidamento possibile è con un cinese (cessione) o con Gm (cessione mascherata da fusione). In termini di business e di management non ne esistono altre.

Perché allora non cambiare paradigma, entrare in un altro mondo, quello sensibile a «gli farò una proposta che non potrà rifiutare»? A chi farla? Al vero Azionista di Fca, quello in sonno, Barack Obama.

Diciamolo brutalmente, in termini politici, lui, e con lui i democrat, con tutto ciò che hanno fatto in questi anni per Chrysler e Fiat, non si possono permettere di avere una Fca, neppure in odore di crisi, figuriamoci costretta a vendersi a un cinese. I repubblicani li sbranerebbero. Il ceo-capitalism è anche questo, un groviglio inestricabile di pubblico e di privato, galleggia fra politica, business, management, lobbying, e ancora, bonus, stock option, lotta parlamentare, voti.

Un passo indietro, torniamo a quel febbraio 2009. Allora, Fiat era «tecnicamente fallita», il titolo valeva 3,54 (con i bond declassati a junk), contro i 5,74 di quando Marchionne era arrivato, cinque anni prima, il 31 maggio 2004. Un disastro. Dall’altra parte dell’Atlantico, Obama si trovava di fronte a un fallimento potenziale, ma molto probabile (Gm) e uno già in corso (Chrysler), da liberista d’accatto (come sono in genere i democrat americani) decide una doppia «nazionalizzazione», per Gm interna al sistema, per Chrysler esterna. «Offre» Chrysler a tutti i competitor mondiali, partendo dall’alto, in ordine di status: a ogni rifiuto cresce la dote, l’ultima è la Fiat di Marchionne, che accetta. In quel momento nasce il nuovo Marchionne, un genio del negoziato, Obama (e i suoi super esperti) si convincono che Fiat abbia comprato Chrysler, mentre, in realtà, sono loro che salvano, con Chrysler, anche Fiat Auto (il WSJ sarà il primo a scriverlo, ma un anno dopo di ItaliaOggi).

A paradigma mutato, oggi cosa farei io? Mi rivolgerei all’Azionista Obama, gli illustrerei una successione di scenari preoccupanti che portano alla conclusione che c’è un’unica soluzione praticabile, ed è pure urgente. Il tutto nell’interesse:

a) dell’immagine dei democrat;
b) dei contribuenti americani che appena 6 anni fa hanno «salvato» Gm, Chrysler, Fiat Auto;
c) dei sindacati americani (dopo sei anni di rinunce di parti rilevanti dei loro diritti, l’accordo capestro di allora, sta scadendo, e verrà rinegoziato su basi centrate sullo sviluppo; in proposito ricordo la frase di Marchionne che certificò l’accordo: «La cultura dei diritti va sostituita con la cultura della povertà»).

Infine, non dimentichiamo che siamo a 16 mesi dalle Presidenziali e i «Democrat non possono permettersi «sbavature» su un elettorato sensibile come quello che gravita intorno al mondo dell’auto e dell’automotive, storicamente a loro legato.

Quale potrebbe essere la soluzione? Una sola, proprio quella che vuole Marchionne: la fusione Gm-Fca.

Come realizzarla? Alla francese, con una moral suasion statalista di Obama su Gm. Obama non la può rifiutare, così Gm, se lui la fa, la deve subire in nome dei supremi interessi dell’America.

Politicamente è la soluzione perfetta, essa resetterà il passato, le opacità del 2009 saranno cancellate, il futuro dell’auto americana garantito, almeno nel breve. Certo, nessuno potrà mai affermare che Obama l’abbia fatta, e neppure dire più che gli Usa siano un Paese liberale, ma il risultato è più importante di tutto: Fca deve essere messa in sicurezza. Circa le modalità tecniche, le banche d’affari sapranno come ottimizzarla, gli esperti di comunicazione come venderla al mercato e ai cittadini. E noi investitori? Fingers crossed, incrociamo le dita.

Post Scriptum: La locuzione moral suasion da parte della Politica verso il mondo del business la trovo la forma più alta del politicamente corretto e del ceo-capitalism. Il suo suono mi affascina.

Fca e General Motors si sposeranno alla francese

Grazie all’autorizzazione di Class Editori, pubblichiamo questo articolo di Riccardo Ruggeri uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi. Per anni ho giudicato Marchionne secondo le categorie del management classico, giudizi rispettosi, a volte critici, mentre come investitore ero, e sono, molto soddisfatto delle sue performance. Solo nel 2012, all'annuncio del mirabolante progetto «Fabbrica Italia», capii l'uomo. Era una…

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