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La recente esposizione universale di Milano ha messo in risalto numerose questioni legate all’alimentazione. Tra le più dibattute, non solo in Expo, ma anche nelle conversazioni quotidiane dei consumatori, c’è l’olio di palma. Oltre alle preoccupazioni per la salute, da più parti smentite, l’attenzione si concentra sempre di più su problematiche relative alla sua produzione. Molti ritengono che un utilizzo eccessivo dell’olio di palma possa mettere a rischio intere popolazioni e l’atmosfera.

Formiche ha intervistato Stefano Savi, Engagement director di RSPO, la Roundtable on sustainable palm oil con sede a Kuala Lumpur, nata per certificare la sostenibilità della produzione dell’olio di palma e garantire uno sviluppo corretto e rispettoso dell’ambiente e delle popolazioni.

Da cosa nasce l’esigenza di creare un’associazione come RSPO?

RSPO nasce nel 2004 da uno sforzo di diversi attori, sia nella supply chain sia nella società civile e da alcune banche, per la necessità di trovare una soluzione a problemi ambientali e sociali che derivano dalla coltivazione non sostenibile dell’olio di palma.

Di quali problemi parla?

Alcuni sono stati rilevati già all’inizio degli anni 90 come ad esempio l’utilizzo dei fuochi  per aprire nuove aree di foresta alla coltivazione. In Indonesia si tratta di un fenomeno annuale che genera un grande quantitativo di fumo che arriva fino in Malesia e a Singapore, con tutti i disagi che ne conseguono.

E’ un po’ quello a cui faceva riferimento la polemica relativa al tweet con cui il ministro per l’Ambiente Ségolène Royal invitava a non mangiare più la Nutella perché conteneva olio di palma?

E’ importante notare che il tweet ha generato la reazione di alcune associazioni e ong alle quali il ministro ha risposto ritirando il proprio commento. Credo sia stato un avvenimento importante che ha fatto trasparire la mancanza di informazioni, anche a livello politico, circa quelle che sono le soluzioni alla coltivazione non sostenibile dell’olio di palma.

In che senso?

Ormai è un punto di vista accettato da quasi tutte le organizzazioni che si occupano di questo tema: la sostituzione dell’olio di palma con altri oli non è sostenibile. Questo perché vorrebbe dire usare da 4 a 10 volte più terra per ottenere la stessa quantità di olio, infatti, questa è la differenza di resa tra le coltivazioni di olio di palma e altri oli vegetali ad oggi disponibili in commercio.

Cosa pensa RSPO delle polemiche relative alla nocività dell’olio di palma per la salute umana?

Come RSPO non ci occupiamo delle questioni legate alla salute. Da parte nostra crediamo che la decisione sull’utilizzo debba restare nelle mani delle autorità competenti e che qualsiasi olio di palma debba essere prodotto in modo sostenibile.

Come si fa a valutare la sostenibilità di una produzione?

I pilastri della sostenibilità sono tre: persone, pianeta e profitto. Noi certifichiamo che la produzione dell’olio di palma rispetti parametri di tipo sociale, ambientale ed economico.

Dal punto di vista economico quanto è rilevante?

C’è almeno un milione di lavoratori impiegato in modo diretto nella coltivazione dell’olio di palma e il 40% della produzione deriva da piccoli e medi coltivatori. L’olio di palma è una fonte di sostentamento vitale per la gran parte delle popolazioni da cui proviene. Quando si parla di olio di palma non si può quindi omettere di parlare di questo elemento. 

Quali sono gli standard di RSPO per valutare la sostenibilità di una produzione?

Si parla di otto principi e criteri che vanno dal rispetto delle leggi vigenti a un impegno verso la trasparenza e regole di rispetto ambientale, affinché non sia sfruttata alcuna foresta primaria o secondaria che abbia un alto valore di conservazione per la biodiversità e gli interessi delle popolazioni locali, come ad esempio le aree sacre e gli appezzamenti di terra sui quali, pur senza diritti legali cartacei, la popolazione può dimostrare che ci sia stato un utilizzo da parte delle generazioni precedenti. In questi casi, prima di riconvertire la foresta, RSPO richiede di attivare un dialogo con le popolazioni locali per ottenere il loro consenso. Ci sono anche alcune pratiche agricole che chiediamo vengano seguite, come ad esempio il non ricorso al fuoco per l’apertura di nuovi territori.

Ogni quanto tempo vengono aggiornati gli standard RSPO?

Almeno ogni cinque anni. Quella del 2013 è stata la seconda revisione e la prossima sarà effettuata prima del 2018.

In quali aree opera maggiormente RSPO?

Le due nazioni in cui, a livello mondiale, viene prodotto fino al 90% dell’olio di palma sono Indonesia e Malesia. RSPO certifica il 20% della produzione globale di olio di palma, ma il nostro target è quello di trasformare il mercato per far sì che utilizzare solo olio di palma certificato sostenibile diventi la norma.

In che modo e possibile raggiungere questo obiettivo?

Abbiamo individuato degli obiettivi di consumo al 2020 che prevedono il 100% di utilizzo di olio di palma certificato in Europa, il 50% in Indonesia e Malesia, il 30% in India e il 10% in Cina. Trattandosi di una catena, non si può spingere il cambiamento ma solo tirarlo attraverso la leva dei consumatori.

Quindi quale suggerimento darebbe a un consumatore europeo attento alla sostenibilità?

Un modo è quello di verificare la presenza della certificazione. Per l’olio di palma il problema è che, non essendo la parte principale dei prodotti alimentari, è anche più difficile per il marketing di un brand focalizzare la comunicazione della sostenibilità su di esso. Da parte del consumatore è importante che esso richieda ai marchi di utilizzare sempre materiale certificato.

Olio di palma, perché la produzione è sostenibile

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