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I più recenti dati Istat puntano a un leggero (ove non fragile) miglioramento della situazione economica italiana. Abbiamo effettuato la svolta da tassi di crescita negativi (ossia recessione) e, secondo il presidente del Consiglio Matteo Renzi, potremmo terminare il 2015 con un aumento del Pil dell’1%.

Sempre inferiore al “tasso potenziale” di crescita, stimato, prima del 2008, all’1,3% del Pil (a ragione principalmente dell’invecchiamento della popolazione e dell’obsolescenza dell’apparato tecnologico nei settori industriali).

Dagli Anni Trenta sono state scritte decine di volumi su come uscire da una recessione, ma pochi su come curare una deflazione di un’unione monetaria ancora in formazione. Forse le idee più originali sono quelle dell’economista nippo-americano Richard C. Koo, rilanciate di recente da due giovani economisti italiani che lavorano negli Usa, Francesco Bianchi (Duke University) e Leonardo Melosi (University of Pennsylvania) in un lavoro pubblicato dalla Federal Reserve Bank di Chicago.

In primo luogo, la deflazione è stata preceduta da quella che Koo chiama una recessione dei conti tra profitti e perdite (per gli Stati, il debito sovrano; per le imprese, il crollo degli utili). Dalla “massimizzazione del profitto” si passa alla “minimizzazione dell’indebitamento”.

In secondo luogo, la crisi del debito sovrano ha innescato politiche di bilancio restrittive, particolarmente penalizzanti per gli investimenti pubblici, mentre pure quelli privati crollavano, e ha anche trasferito crediti (poco esigibili) da intermediari finanziari agli Stati.

In terzo luogo, le autorità monetarie, ossia la Bce, non hanno mai fatto mancare liquidità al sistema, ma spesso tale liquidità non è arrivata alle attività produttive, alle imprese. Le misure monetarie non convenzionali sono utili, ma hanno effetti limitati.

Una terapia possibile dovrebbe fare leva non solo sulla politica monetaria, ma anche su quella di bilancio. La seconda dovrebbe essere coordinata in seno all’Eurozona e prevedere un temporaneo allentamento dei vincoli, per dare maggiore spazio agli investimenti, mantenendo i freni sulla spesa di parte corrente. Politica monetaria e di bilancio dovrebbero essere accompagnate da un rilancio della politica dei prezzi e dei redditi, anche al fine di evitare un peggioramento delle ineguaglianze. Occorre, però, trattare non solo le conseguenze, ma sopratutto la causa: il debito sovrano.

Più di recente sono tornati sul tema Willi Semmler e Alexander Haider, ambedue della New School della Universität Bielefeld, una dinamica e relativamente giovane università nata nel 1969 nei pressi della Foresta di Teutoburg. Il loro lavoro, intitolato “The Perils of Debt Deflation in the Euro Area – a Multi Regime Model” (ZEW, Centre for European Studies, Discussion Paper 15-071) può apparire decisamente controcorrente, poiché nella vulgata generale il debito pubblico è visto come una fucina d’inflazione alimentata da indebitamento delle pubbliche amministrazioni.

La loro ipotesi è che, nonostante i flebili segnali di ripresa, l’Eurozona sia minacciata da deflazione da debito e da stagnazione “secolare”. “Il pericolo principale”, sottolineano, “è che la deflazione da debito – tesi molto simile a quella di Richard C. Koo – ha l’effetto di aumentare i tassi d’interesse reali e che, quindi, un aumento ulteriore del debito può portare a insolvenze da parte delle famiglie, delle imprese e delle banche”. Costruiscono, per dimostrare analiticamente la loro ipotesi un modello econometrico e lo “testano” su dati dell’”urozona.

Lasciamo da parte la modellistica econometrica, che poco interessa i nostri lettori. Però è utile sottolineare che:

a) il debito pubblico è una minaccia per anche una modesta ripresa; b) il metodo del “semestre europeo”, ossia dell’esame parallelo delle politiche di bilancio degli Stati dell’Unione Europea, rappresenta un’occasione per sollevarlo (tanto più che non si è sollevato il problema durante il cosiddetto semestre italiano quando l’Italia aveva la Presidenza del Consiglio Europeo; nel Documento di Economia e Finanza (che dovrebbe essere centrale alla politica economica del Paese), del tema quasi non si parla.

Non ci si accusi di essere nostalgici, se si ricorda che un quarto di secolo fa, l’assemblea generale dell’Onu approvò all’unanimità un breve rapporto predisposto, per conto delle Nazioni Unite, dall’ex presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi. Proponeva una serie di “insolvenze concordate” per uscire dalla trappola del debito dei Paesi in via di sviluppo. La strategia venne attuata con successo. Anche per i creditori è preferibile un’uscita con qualche costo, piuttosto che rischiare di perdere il capitale prestato.

Tutti gli effetti nefasti del mix deflazione e debito pubblico

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