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Secondo quanto scrive il Daily Beast, l’ex direttore della Cia ora in pensione, il generale che fu a capo del contingente americano in Iraq e Afghanistan David Petraeus, sta invitando i funzionari americani a valutare la possibilità di chiedere l’appoggio di al Qaeda in Siria per combattere lo Stato islamico.

Dietro all’uscita c’è però molto della filosofia e dell’esperienza del generale. A Petraeus si deve (il Surge e) il Sunni Awakening, cioè l’attività di persuasione con cui nel 2007 gli americani ottennero il supporto di molte milizie tribali sunnite durante la guerra civile settaria irachena. La strategia funzionò pure, almeno temporaneamente: i sunniti smisero di appoggiare la filiale locale di al Qaeda, anzi iniziarono a combatterla e schiacciarla insieme agli americani; salvo poi che AQI (al Qaeda in Iraq), per molti osservatori, qualche anno dopo è rinata proprio come Stato islamico.

La storia in realtà è molto più complessa e articolata di così, e c’entra molto anche il prematuro ritiro e l’errore di valutazione americano nell’affidare le sorti del governo nelle mani dell’esclusivismo sciita. Fatto sta che soltanto l’idea di “quel che è successo l’ultima volta che ci abbiamo provato” (senza scomodare ricorsi storici e appoggi ai mujaheddin afghani), può bastare secondo gli analisti per avvolgere l’idea di negatività. Appoggiare la Jabhat al Nusra, questo il nome preso dall’al Qaeda siriana, infatti significherebbe anche andare incontro a dei blocchi legali, tralasciando l’aspetto etico morale, con un’alleanza pragmatica che “condonerebbe” di fatto l’11 settembre 2001 e anni di morti nella guerra al Terrore. Al Nusra è dal 2012 inserita nelle liste delle organizzazioni terroristiche americane: non bastasse, nei mesi scorsi un ordine esecutivo del presidente Barack Obama ordinò il bombardamento di un’ancora fantomatica unità interna del gruppo qaedista, la Khorasan, colpita perché considerata un potenziale pericolo primario, visto che fonti d’intelligence dicevano che i membri stessero preparando piani per attentati in Occidente. Non bastasse c’è anche la storia dei ribelli moderati addestrati dagli Usa, quelli che appena entrati in Siria dalla Turchia sono stati disintegrati dagli attacchi proprio di Nusra.

Ma David Petraeus, nonostante tutto, ha ancora un forte ascendente a Washington, godendo di una grossa rispettabilità che influenza molto il pensiero di ampie fasce di funzionari americani che ricoprono posizioni all’interno dell’intelligence, del mondo militare e pure politico.

Certo è che agli Stati Uniti – rilevano molti esperti – servirebbe una forza terrestre per combattere il Califfato – almeno fino a che la linea del “no(!) boots on the ground” riuscirà a tenere. Nel 2011, quando era direttore della Cia e la guerra civile siriana era agli albori, lui insieme all’allora segretario di Stato Hillary Clinton e quello della Difesa Leon Panetta, esortarono Barack Obama a prendere una posizione ed appoggiare le fazioni di ribelli moderati che si opponevano al regime di Damasco. Obama traccheggiò nell’ottica del disimpegno, e fu così che questi gruppi di combattenti migrarono all’interno di realtà islamiste. Le ragioni di questo passaggio in molti casi non furono ideologiche: più che altro si legarono a situazioni di pragmatica del campo di battaglia, dove andare con Nusra significava andare con un gruppo più grande, più organizzato, più potente militarmente, e cioè avere più possibilità di vincere la guerra. Per questo Jabhat al Nusra è rimasta negli anni sempre fedele alla linea iniziale, la stessa dei primi ribelli: combattere Bashar al-Assad con ogni forza, mentre all’opposto, l’Isis ha seguito l’agenda “personale” del Califfato.

Ora Petraeus vorrebbe sfruttare questa vecchia situazione, sollecitando quei gruppi moderati che negli anni sono entrati in Nusra ad uscire fuori e liberarsi dal peso (in alcuni casi mal sopportato e non condiviso) dell’ideologia qaedista.

Se uno dei più influenti comandanti militari della storia moderna americana se ne esce con una proposta del genere (anche se ufficialmente non è stato rilasciato nessun commento al pezzo del Daily Beast e le stesse fonti hanno assicurato al giornale che sui tavoli di lavoro ancora non c’è niente di concreto), potrebbe significare quanto meno che c’è qualcosa che non va nella “strategia” di Obama per combattere lo Stato islamico.

Qualche tempo fa, anche l’ex ambasciatore statunitense in Siria Robert Ford propose di avviare il dialogo con Ahrar al Sham, una forza jihadista (chiacchierata, tra continue smentite, per avere legami con al Qaeda, a cominciare da quelli del suo fondatore) che attualmente «è il gruppo più importante che combatte il regime siriano» (R. Ford, Middle East Eye), finito tempo fa sotto attacco dell’Isis che ne decapitò la leadership. Ford ha recentemente difeso questa sua posizione, sostenendo che la storica presa di Idlib, per cui è stata più volte citata la forza di al Nusra, è in realtà in massima parte opera di Ahrar al Sham che sul campo aveva più uomini.

Più passa il tempo e più l’Isis si radicalizza, assumendo posizioni estreme ed efferate, e più certi gruppi sembrano moderati. E d’altra parte, il leader della Jabhat al Nusra Abu Mohammed al Joulani da tempo sta assumendo una posizione distensiva nei confronti dell’Occidente. In questo maquillage del gruppo qaedista, secondo alcuni osservatori ci sarebbe una regia: il Qatar, Paese fortemente legato ad al Nusra come alle economie occidentali, la cui Tv Al Jazeera ha ospitato ad inizio giugno Joulani in un’intervista di un’ora andata in onda in prime time in due puntate. Un  tentativo di mainstreaming di Jabhat al Nusra?

@danemblog

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