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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class, pubblichiamo l’analisi di Alberto Pasolini Zanelli uscita ieri sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi

Sono le elezioni più complicate, forse, dell’intera storia della Gran Bretagna. Vale a dire di un Paese che, nelle sue componenti, è antico e solido, ma che, giuridicamente, come tale e perfino nel nome, è relativamente giovane: trecento anni in tutto, quasi un record in Europa ma un dato diverso da una convinzione in parte leggendaria anche se fondatissima. I motivi che hanno fatto questa isola una potenza imperiale (almeno per un secolo la prima nel mondo) sono noti. Lo sono meno, soprattutto alcuni dettagli decisivi, i motivi per cui la Gran Bretagna, contrariamente alle sue tradizioni e alle nostre convinzioni, è oggi una delle regioni dell’Europa in crisi. Ma non per le stesse cause di quasi tutte le altre.

Per cominciare, l’economia, tormento e spesso incubo dell’Europa continentale, in Gran Bretagna va abbastanza bene, sia come inflazione, sia come disoccupazione. A rimetterla in sesto è stato un premier, David Cameron, che ha imposto una forma più illuminata di Austerity e che, se sul suo record si votasse giovedì, avrebbe tutte le carte in mano per essere rieletto.

Invece ha annaspato durante tutta la campagna elettorale (lodevolmente breve come nelle leggi e nelle tradizioni britanniche: tre settimane e tutti alle urne, gli americani ci mettono un anno e mezzo), nonostante avesse a che fare con un rivale, a sua volta, e per altri motivi, fragile. Per la ragione che la Gran Bretagna sta diventando meno Grande e soprattutto meno Bretagna.

E non per i motivi seri ma banali che accomunano l’Italia, la Francia, la Penisola Iberica e i Balcani, ma perché emergono le identità antiche e contrastanti. Ci se ne accorge anche solo dalla superficie: Londra è la capitale del Paese ideale del bipartitismo, con due partiti che si alternano al potere mentre l’altro si riposa in una opposizione dai banchi piuttosto comodi. Stavolta invece sono in campo mezza dozzina di partiti. I soliti conservatori e laburisti, che annaspano per i motivi accennati, la vecchia terza forza, il Partito liberale, che rischia di diventare la Prima Debolezza scendendo a livelli del fratello tedesco.

A crescere sono gli Altri, espressioni in gran parte locali non in Inghilterra, ma in Scozia, nel Galles, nell’Irlanda del Nord e perfino nelle isole frigide ma riscaldate dal petrolio abbondante nei mari che tendono verso la Scandinavia. Più, ed è la novità di ieri, una forza davvero nuova dal nome che impressiona e lascia perplessi: Partito dell’Indipendenza del Regno Unito, l’Ukip. Sull’identità di tale indipendenza non ci sono dubbi: la voteranno, anzi l’hanno già votata in abbondanza, coloro che vogliono liberare la Gran Bretagna dall’Europa, una Lega Nord grande ed insulare. A dare un’idea, se non del suo futuro almeno del suo passato recentissimo, nelle recenti votazioni per il Parlamento di Strasburgo l’Ukip ha battuto tutti, superando sia i conservatori, sia i laburisti.

Se ripetesse quel risultato, sarebbe davvero una rivoluzione. Dicono i sondaggi che non lo ripeterà per due motivi principali. Il primo è la meccanica perversa del proporzionale, temibile anche in un sistema maggioritario. I conservatori cercano di recuperare terreno accusando gli elettori dell’Ukip di “disperdere il voto” (la strategia storica della Dc in Italia). Cameron ha bisogno di recuperare, e in parte ce la farà, sia pure nella più corta delle incollature, perché anche i laburisti hanno i loro problemi e l’equivalente di un Ukip, che però è di sinistra invece che di destra e radicato in Scozia invece che in Inghilterra.

E qui entriamo nell’enigma scozzese. Un partito nuovo anche se dalle profonde radici etniche e perfino linguistiche, ha conquistato la maggioranza assoluta nelle elezioni regionali di un paio di anni fa. Su questo successo ha preteso un referendum che sancisse l’indipendenza, è stato sconfitto e adesso rimonta con un programma meno ristretto e più sociale. Potrebbe conquistare la maggioranza assoluta dei seggi scozzesi. Castigando i laburisti, però, potrebbe anche salvarli: se nessun partito avrà la maggioranza assoluta (la buona regola della Gran Bretagna) potrà rendere possibile il successo di una coalizione di sinistra.

Sarebbe un mezzo miracolo, è l’incubo di Cameron, è reso più difficile dal tallone d’Achille, davvero personale, del leader laburista Ed Miliband, che molti accusano di avere rispostato a sinistra, annullando parte della riforma interna tentata ed ottenuta con successo da Tony Blair. Miliband ha, in più, un fratello risoluto rivale nella lotta per il controllo del “labour” e l’ombra di papà, un importante ideologo dichiaratamente marxista. Queste le cause possibili di una frana, che farebbe riemergere alla superficie della “giovane” Gran Bretagna gli scogli antichi con la loro storia, i loro nomi, i loro interessi contrastanti.

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