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Pubblichiamo la lettera di Massimo Mucchetti, giornalista ed editorialista, ora senatore del Pd e presidente della commissione Industria del Senato, uscita sul Corriere della Sera

Caro direttore, l’Opa amichevole di ChemChina sulla Pirelli, la più autentica multinazionale italiana, ci propone tre questioni rilevanti. La prima riguarda l’operazione in sé. La Pirelli era scalabile da anni. I suoi azionisti-gerenti — i Pirelli fino al 1992, Tronchetti Provera in seguito — vi detenevano partecipazioni basse, protette da patti di sindacato e poi da più informali legami con banche e assicurazioni. Di fronte a un’Opa, quei legami non avrebbero retto. Era scritto. Adesso l’Opa c’è. Vedremo se risulterà attraente per i più, se non per tutti.

Certo è che Camfin, la holding italo-russa guidata da Tronchetti, pare pronta a consegnare il suo 26% al veicolo dell’offerta, per due terzi cinese e per un terzo italo-russo. Al pacchetto Camfin potrebbe aggiungersi l’8,5% di Benetton e Mediobanca. Tanto basterebbe a determinare il passaggio di mano del controllo di fatto, sempre che ChemChina non ponga limiti più elevati alla sua offerta. Lo stesso discorso vale per eventuali altre offerte concorrenti. Ma seguiamo lo schema.

Il veicolo ChemChina-Camfin pagherà fino a 7,4 miliardi, dei quali 4 finanziati a debito. Se l’Opa andrà a buon fine, la Pirelli si troverà con un debito di 5 miliardi a fronte di un margine operativo lordo di 1,2. Un fardello assai più pesante di quello di Michelin e Continental. I protagonisti lo considerano sostenibile sia perché una parte potrebbe essere scaricata sul settore pneumatici industriali (vale circa 1,8 miliardi e potrebbe essere collocato sui mercati finanziari asiatici assieme alla Aeolus di ChemChina attraverso un aumento di capitale) sia perché Pirelli fa un utile lordo atteso da Mediobanca in 750 milioni quest’anno, dal quale non si dovrebbero più estrarre dividendi né pagare imposte piene. Nel giro di un po’ di tempo, il boccone dovrebbe essere digerito. Il punto è l’impatto del debito nella transizione sulla propensione agli investimenti del gruppo, nel quadro di un confronto con l’ipotetico acquisto a opera di un concorrente o di un private equity , che, probabilmente, farebbero uno spezzatino del gruppo.

La seconda questione riguarda il rapporto della Pirelli con la madre patria. Si legge di alcune non irrilevanti guarentigie: la garanzia statutaria sulla permanenza della sede legale, degli headquarter e dei centri di ricerca in Italia, revocabile solo con una maggioranza del 90%. Maggioranza che nei prossimi 5 anni i cinesi non avranno e che non è scontato abbiamo nemmeno dopo.

Comunque sia, il controllo è il controllo e la Pirelli targata Pechino, ancorché con un Tronchetti in grado di scegliersi il successore, rappresenta una svolta epocale. Che trae origine dal progressivo indebolimento del capitalismo italiano. Ma intonare la solita predica sul capitalismo senza capitali, che subordina al controllo lo sviluppo delle imprese, non aiuta a capire chi e come avrebbe potuto conservare una «proprietà italiana» a un’azienda, ormai abbastanza liquida da essere scalabile a debito, senza indebolirla. Il capitale di rischio, ricordiamolo, viene dall’imprenditore, dai fondi, dal sistema bancario-assicurativo, dallo Stato. Non dal cielo.

L’imprenditore descrive, nell’arco di una o più generazioni, una parabola che termina con il passaggio di proprietà dell’impresa. I ricchi nostrani non sono emiri. I fondi comuni, tra il 2000 e il 2013, hanno ridotto gli impieghi in azioni nazionali dal 10% al 2% delle loro masse amministrate. I fondi pensione investono in azioni italiane l’1%, forse meno, del loro patrimonio.

I private equity, anche quando non sono locuste, ogni 3-5 anni vendono. Gli accordi di Basilea impongono alle banche di finanziare le partecipazioni con capitali propri, che però sono sempre scarsi. Lo stesso fa Solvency 2 con le assicurazioni. Ecco perché banche e assicurazioni sono fuori da ogni rilancio. Resterebbe, in teoria, la Cassa depositi e prestiti, strattonata da governi ondivaghi che ieri volevano vendere l’Ilva e adesso la vogliono tenere, che gonfiano il petto contro l’Europa ma poi offrono all’estero le banche popolari migliori. Senza una missione chiara, un’indipendenza reale e, al tempo stesso, una copertura politica bipartisan nell’uso delle risorse, la Cdp può interloquire su Ansaldo Energia, non su Pirelli.

Terza e ultima questione: il pretendente. ChemChina è un’azienda statale, guidata da un manager iscritto al Partito. Oggi è la Pirelli a essere nazionalizzata a opera di Paese comunista. Come ieri fu Edison a essere nazionalizzata dalla Francia democratica. Domani toccherà ad altre aziende italiane e non: la vastità di un mercato come quello cinese, retto da un unico Stato, esercita un’attrazione contro la quale le regole condominiali europee appaiono patetiche come il cerone di una vecchia dama di fronte alla forza della gioventù.

Massimo Mucchetti
Senatore Pd, Presidente della Commissione Industria del Senato

Pirelli nazionalizzata dal Partito comunista cinese. La versione di Mucchetti

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