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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, pubblichiamo l’analisi di Pierluigi Magnaschi, direttore di Italia Oggi e di Mf/Milano Finanza

Sergio Staino è il famoso umorista toscano che ha inventato Bobo, il comunista duro e puro, che è stato protagonista delle sue vignette operaistiche pubblicate ininterrottamente e, per quasi trent’anni, sull’Unità.

Staino viene da lontano. Nasce infatti nelle sezioni del partito e nelle feste dell’Unità.

Raggiunge la vetta della sua popolarità nel supplemento satirico Cuore che era allegato all’Unità nella stagione dei grandi numeri e delle grandi firme. Staino non è mai stato un comunista oltranzista ma è sicuramente sempre stato un comunista fedele alla linea. Inevitabilmente, quindi, ha visto l’emergere di Matteo Renzi, un toscanaccio come lui, ma anche così fuori dai suoi schemi, come il fumo negli occhi.

Infatti Staino è rimasto aggrappato alla Ditta (anche se lui, il suo partito, non lo chiamerebbe mai così), ma lo dico per rendere l’idea. Per questo Staino ha sostenuto convintamente Pier Luigi Bersani e, poi, persino Enrico Letta, uno che è agli antipodi non solo della sua cultura e pratica politica ma anche della sua antropologia. Enrico Letta infatti non ha certo le movenze e l’odore del milieu popolare nel quale Staino, non solo è cresciuto, ma si è anche riconosciuto, fino a diventarne lo specchio e il megafono. Ma pur di non sostenere Renzi, per Staino andava bene, non solo Bersani, ma anche Enrico Letta.

Però, improvvisamente, nel pieno della bagarre che ha investito il Pd durante l’approvazione della legge elettorale, Staino ha aperto gli occhi e ha concesso a Il Fatto quotidiano un’intervista inevitabilmente sofferta (in quanto militante Pd; come lui infatti si considera ancora) ma anche risoluta sullo stato del suo partito e soprattutto dei suoi dirigenti storici.

Un’intervista così non se l’aspettava nessuno, molto francamente. Prima di commentarla, preferiamo quindi far conoscere ai lettori un passaggio clou, testuale. Dice Sergio Staino: «Io non sono in grado di valutare fino in fondo se questa legge elettorale sia la meno peggio e se si potesse fare di meglio, ma so che appellarsi alle preferenze per contrastarla, si rinnega una storia decennale. Se me lo dice Civati, bene. Se me lo spiega Grillo, benissimo. Ma Bersani non può. Il Pci ha sempre considerato le preferenze come strumento utile a favorire correntismo e clientelismo. Ricordo quando Bersani vinse le primarie. Facce nuove, volti amici, speranze che lui tradì infilando i nominati calati dall’alto. In Toscana abbiamo avuto la peggior serie di burocrati del partito. Chi li ha rimessi? Lui. Come si permette di criticare quando è stato proprio Bersani il primo a portare il partito alla catastrofe? Cosa vuole? Deve andare al parco con i pensionati. Non può ripresentarsi con la faccia vergine. Bersani, D’Alema e tutti gli altri, invece di indicare Letta – una cosa da non credere – come faro aggregante, devono capire una cosa. Renzi ha vinto per colpa loro. I compagni e la base non li volevano più. Il voto per Renzi è stato soprattutto un plebiscito contro la loro incapacità. Ma questo, proprio non lo vogliono capì».

L’intervista a Staino è molto più lunga ma, anche queste poche righe, da grande comunicatore qual è (nelle sue vignette, Staino usa, da sempre, quando va largo, 30 battute, altro che le 120 di Twitter e molto prima che Twitter fosse inventato!), queste poche righe, dicevo, chiariscono bene il senso di un’indignazione contro le assurde parti in commedia.

È un’invettiva lungamente crogiolata contro leader di partito ai quali Staino (e le decine di migliaia di militanti del Pd che si sentono sulla sua stessa lunghezza d’onda) aveva riposto fiducia. E invece trova che, oltre a essere diventati vecchi, sono anche privi di convinzioni. Le preferenze, ad esempio, sono da evitare come la peste, se ai big del partito conviene non usarle ma possono essere, subito dopo, il toccasana, sempre se ai big conviene assumere quest’ultima posizione.

A Staino non va bene questo costume. Che è poi quello, dice, per cui la speranza di rinnovamento (che andrebbe rispettata perché è espressiva di una delicata e preziosa fiducia in un futuro migliore, da costruire tutti assieme) è stata annegata con le brutali nomine dall’alto, dice Staino, «della peggior serie di burocrati del partito».

La base piddina, quella popolare, quella che si mette a disposizione, che non chiede posti nei cda delle municipalizzate, delusa da tutto, attendeva il rinnovamento, le facce nuove, i discorsi diversi e invece si è vista somministrare (grazie al meccanismo dei nominati, che avrebbe potuto essere usato meglio) solo dei grigi funzionari, allevati all’obbedienza al boss, cresciuti in sezioni polverose ed escludenti, specializzati nel traffico delle tessere e nella tutela degli equilibri interni di un partito vecchio e ossificato. Ecco perché Staino conclude tirando le conclusioni e cioè che «il voto per Renzi è stato soprattutto un plebiscito contro l’incapacità dei Bersani e dei D’Alema» gente che, insiste Staino, il più soave dei contestatori ma che questa volta ha perso le staffe, «deve andare al parco con i pensionati». Parole brucianti ma che non servono per chi non vuol sentire.

Non ci sono per la minoranza dem punti fermi, convinzioni radicate, ma solo convenienze occasionali, sempre smentibili da una nomenclatura abituata da troppo tempo a qualsiasi giro di valzer, depositaria com’è di tutte le contraddizioni e legittimata a giostrarle come nel gioco delle tre tavolette.

Pertanto i comportamenti non sono più legittimi o illegittimi, utili per l’elettorato che si dice di voler rappresentare, o pericolosi. Per poterli giudicare bisogna, non valutarli in assoluto, ma sapere prima chi li ha assunti. Se è uno dei nostri, ok. Se è un avversario (magari dello stesso partito) allora si emette la fatwa, si parla di fascismo, si evocano scenari rovinografici, da fine del mondo. Staino non ci sta più. E, par di capire, nemmeno Bobo.

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