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La sfida oggi è far diventare adulta la Seconda Repubblica. E il paradosso è che il compito tocchi proprio alla generazione più giovane. A quella che è stata descritta per anni come la più immatura, la meno coraggiosa e la più schiacciata sul presente. Ora, a questa generazione segnata dalla precarietà, dall’abolizione del lungo periodo in tutti gli ambiti della vita, personale e professionale, si chiede precisamente di farsi carico del lungo periodo.

Di mettere al centro la sostenibilità in tutte le sue forme. Di riannodare i fili di una continuità interrotta da anni di gioiosa euforia degli abissi. Secondo due filosofi francesi che hanno riflettuto a lungo sull’argomento, le caratteristiche distintive dell’essere adulti sono principalmente tre. Esperienza. Responsabilità. Autenticità.

Sono queste le tre prove che la Seconda Repubblica deve ora superare per raggiungere la maturità. Primo: smettere di ripartire da zero ogni volta. Il complesso della culla, la rifondazione permanente, l’ora x liberatoria. Vent’anni passati a inseguire una verginità impossibile, anziché a costruire con quello che c’era. Il principe Andrej ha un suo fascino, ma la guerra contro Napoleone l’ha vinta Kutuzov. Chi pensa di poter ripartire da zero è condannato a ripercorrere le strade già battute. Solo chi impara dall’esperienza può sperare di tracciare una via nuova. Secondo: smettere di dare la colpa sempre a qualcun altro. Come lo spettacolo patetico – diffuso in tutto il Sud Europa – di esponenti politici che fondano la loro campagna elettorale su un singolo argomento: «Con la Merkel ci parlo io». Se siamo in crisi non è colpa né della Merkel, né dei cinesi, né tantomeno di forze oscure e incontrollabili.

Se siamo in crisi è perché abbiamo smarrito il senso di chi siamo e di dove stiamo andando. La responsabilità di ritrovare la strada è nostra e solo nostra. L’unico modo di recuperare fiducia è riaffermare il controllo sul nostro destino.

Terzo: diventare ciò che siamo. Smettere di scimmiottare gli altri. Il modello tedesco, l’esempio scandinavo, il sogno americano e perfino la movida spagnola. Da più di cinque secoli, l’Italia ha il suo modello. È complicato, poco ortodosso e difficile da classificare. Come dice qualcuno: se pensate di aver capito, vuol dire che ve l’hanno spiegato male. Si fonda sulla cultura, sul gusto di vivere, sull’idiosincrasia irriducibile di milioni di individui. A volerlo raccontare, si rischia di perdere giornate intere e di lasciare comunque fuori l’essenziale. Eppure è qui.

Cosa faremo noi giovani ora alla guida dell'Italia

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