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La riforma della pubblica amministrazione, la “madre di tutte le riforme”, sta per compiere il suo giro di boa, dopo l’approdo in aula al Senato: è il momento di tirare una riga e fare un primo bilancio.

La carne al fuoco è molta, per un gran numero di deleghe al Governo, ma il perno attorno cui ruota il tutto resta il rapporto fra politica e burocrazia, dirigenza in particolare. Storia vecchia, antica direi: l’eterno contendere fra la burocrazia che sconfina nella politica e la politica che vuole gestire l’amministrazione.

I confini, lo sappiamo, non sono affatto netti: se l’ortodossia vuole la distinzione di ruoli fra la politica che detta gli indirizzi e la burocrazia che implementa le politiche, nell’attività quotidiana le cose non sono così semplici e le acque si confondono.

I fattori che regolano il gioco sono molti e diversi: forza e capacità degli attori, contingenze del momento, carattere dei singoli, persino. L’equilibrio che ne risulta è quindi instabile e mutevole e, tuttavia, regolato dal principio di leale collaborazione e dalla consapevolezza dei rispettivi ruoli. Ecco perché, aldilà di tutta una serie di considerazioni tecniche sul disegno di legge all’esame delle Camere, il rischio è che si sconti un pericoloso equivoco, ovvero che politici e burocrati siano nemici e gli uni contro gli altri armati.

In realtà il sistema, pur nella sua mutevole stabilità, funziona se il rapporto fra le due “squadre” è ben regolato e basato sulla chiarezza dei ruoli. La politica non deve essere necessariamente esperta delle singole, tante materie che compongono l’azione pubblica e, sulla base di un programma politico chiaro, dovrebbe appoggiarsi sulla struttura dell’amministrazione che si trova a dirigere, dando indirizzi chiari e chiedendo conto della realizzazione degli obiettivi.

La burocrazia, dal canto suo, ha il compito di gestire la macchina ed essere capace di tramutare in realtà amministrativa l’indirizzo politico al meglio delle sue capacità. E se deve dire dei no, quei no devono essere motivati da ostacoli oggettivi (normativi o legati al sistema delle politiche) e accompagnati da proposte alternative, che mirano alla realizzazione concreta dell’indirizzo politico. Insomma, se non fratelli di sangue, politico e burocrate sono legati a filo doppio. Quasi amici, diciamo.

E il rapporto si gioca sul quotidiano, con una regola aurea che entrambi devono seguire scrupolosamente: ad ognuno il suo mestiere. Il politico non aspiri a pilotare le cose d’amministrazione, magari attraverso amici e sodali piazzati nella stanza dei bottoni. Il burocrate non faccia politica dietro le porte chiuse, contando sulla rete di relazioni istituzionali e conoscenza delle dinamiche gestionali.

Certe semplificazioni della realtà lasciano il tempo che trovano: il corretto funzionamento della macchina pubblica è responsabilità di entrambi e, aldilà delle rappresentazioni che vedono politicanti contro mandarini, tutto deve tenersi su un prerequisito indispensabile: la buona selezione delle classi dirigenti politiche e amministrative. Un lavoro enorme, sul quale occorre scommettere sul serio.

Politici e burocrati: quasi amici

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