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E’ da un po’ che non vi mando messaggi. E non perché non avessi proprio nulla da raccontarvi da quassù, dove potrei, se volessi, anche farvi il corrispondente quotidiano, esprimendovi la mia opinione su quel che accade laggiù da voi, e riferendo anche quella di altri che mi fanno serena compagnia. Mi sono per un po’ astenuto solo perché sono tanto sorpreso dai vostri fatti, nel male ma anche nel bene, da essere rimasto letteralmente senza parole.

Vi scrivo questa volta per rivelarvi il disappunto del buon Giulio Andreotti, di solito così parco di reazioni, per una intervista che laggiù gli ha attribuito un amico che non lo aveva mai intervistato da vivo. E ciò per il semplice fatto che era un amico addetto solo a relazioni di palazzo.

Per i rapporti con giornali e giornalisti, ma anche con il pubblico più in generale, dalle centinaia di migliaia di elettori, quando c’erano i voti di preferenza, agli ancora più numerosi estimatori che non potevano votarlo perché estranei al suo collegio laziale, il buon Giulio provvedeva direttamente. Per ognuno di loro tirava fuori i recapiti, all’occorrenza, per un augurio onomastico o genetliaco, per una festa o un lutto, per una promozione o un arretramento. Sì, anche per gli arretramenti, frequenti in particolare fra i giornalisti, usi a salire ma anche a scendere le scale degli editori, o a passare dal massimo al minimo degli ascolti.

A tutto questo complesso di relazioni Giulio – lo chiamo così perché la confidenza tra noi è stata immediata, con il suo arrivo quassù – sapeva e voleva provvedere da solo. Con i giornalisti, poi, ci teneva in particolare, sentendosi della loro famiglia a tutti gli effetti, anche quelli previdenziali.

Ebbene, il cruccio maggiore dell’intervista “immaginaria” carpitagli dall’abituale frequentatore dei suoi uffici, quando ne disponeva anche di diversi, e a poche centinaia di metri di distanza l’uno dall’altro nel quadrilatero romano del potere, gliel’ha procurato quell’atteggiamento un po’ troppo polemico o supponente attribuitogli nei riguardi di Matteo Renzi. Al quale Giulio, se potesse parlargli davvero, e direttamente, avrebbe ben poco da rimproverare, conoscendo bene l’eredità politica e istituzionale lasciatagli dai predecessori a Palazzo Chigi, compreso lui. Che fu costretto tante volte dalla logica del “tirare a campare pur non di tirare le cuoia” a rinviare la soluzione dei problemi, o a risolverli creandone di nuovi ancora più grandi.

Per Renzi, nonostante sia toscano come Amintore Fanfani, il buon Giulio ha solo ammirazione. Invidia no, perché questo sentimento non lo ha mai perseguitato in vita, e tanto meno si permette di coltivarlo quassù. Ammirazione per il coraggio con il quale sta rottamando cose e persone che a lui avevano dato un sacco di fastidio, per quanto trattenuto nelle forme e nei riti imposti dalla politica e dalla diplomazia.

Una sola cosa, di Renzi, non piace tanto a Giulio. La paura di farsi venire la gobba, per cui cammina, scrive, dorme, parla, fa forse anche i bisogni, a schiena dritta. A Giulio invece la gobba piaceva, perché la riteneva frutto della sua abitudine di leggere e riflettere prima di decidere e di agire, quando gli riusciva naturalmente di arrivare davvero alla decisione e all’azione. La gobba gli aveva a lungo portato fortuna, fino a quando a toglierla, la fortuna, non arrivarono i magistrati di Palermo e affini.

La gobba aveva contribuito a rendere Giulio persino familiare e simpatico. Un po’ come quella –mi dice lo stesso Giulio – che porta magnificamente Sergio Mattarella al Quirinale. Un colle dove anche lui avrebbe voluto arrivare. E dove è convinto che sarebbe riuscito a fare meglio, ma molto meglio di tanti altri che vi sono saliti al suo posto. Una convinzione che mi permetto di condividere.

Andreotti, Renzi e le gobbe

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