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Gli storici delle crisi offrono sempre ottime occasione per guardarsi dentro in cerca di presagi. Personalmente, pur non amando il genere, mi son trovato a pensarci leggendo un corposo volume diffuso a dicembre scorso dalla Banca d’Italia intitolato “Gli effetti della crisi sul potenziale produttivo e sulla spesa delle famiglie in Italia” ove, fra i vari interventi ne ho trovato uno che sembra racconti il futuro, pur parlando del passato.

L’autore infatti compie una disamina delle due crisi che hanno sconvolto il mondo e in particolare il nostro Paese: quella del biennio 2008-2009 e poi quella del 2012-13, individuando similarità e difformità che oggi, quando si torna a parlare di crisi della Grecia, di paura per la tenuta dell’euro, di azioni straordinarie della Bce, suonano come un tremendo avvertimento circa gli esiti imprevedibili, per quanto si tenti ogni volta di anticiparli, di uno scossone economico.

Ma l’aspetto autenticamente interessante è un altro. La prima crisi, infatti, ha avuto conseguenze, cause ed effetti assolutamente diversi rispetto alla seconda sulla nostra povera economia, ormai da anni alle prese con una combinazione micidiale di prodotto declinante insieme all’occupazione, ai redditi e ai prezzi, per non parlare della fiducia, con gli investimenti crollati del 27% e un livello del Pil a fine 2013, inferiore dell’8% rispetto al 2007. E nel 2014 è diminuito ancora.

Soprattutto salta all’occhio una differenza che i semplici indicatori non consentono mai di apprezzare nella giusta maniera. Nella crisi post Leham, quando tutto il mondo fu avvolto dalla spirale della paura dell’armageddon, e il Pil perse 6,5 punti in due anni, l’Italia reagì. Lo sfacelo, totalmente importato dall’estero, fu controbilanciato dal bilancio pubblico e dalla politica monetaria della Bce, che già si preparava ai futuri allentamenti che arriveranno dopo.

Nella crisi eurocentrica del 2012-13, l’Italia ha altresì reagito, ma senza riuscire a invertire il trend. La timida ripresa registrata fra il 2010 e il 2011 fu gelata dalle varie crisi greche, che oggi tornano ad agitare il loro spettro minaccioso sopra il nostro capo, e le politiche di bilancio aggravarono il ciclo, senza che la politica monetaria sia riuscita ad arginare la frana della fiducia – cos’altro è una crisi degli spread se non una mancanza di fiducia? – e quindi del credito, e a seguire degli investimenti, dell’occupazione e dei consumi.

Tale specificità, per la quale la crisi dell’eurozona ha fatto più danni all’Italia di quella di Lehman Brothers, è una di quelle cose che dovremmo sempre tenere a mente, specie oggi che tutti i presagi lasciano temere che, come dicono i proverbi, non c’è due senza tre: le due crisi, per dirla in altro modo, stanno preparando la terza. E se il passato ci insegna qualcosa è che le crisi concentriche trovano sempre un epicentro. Che stavolta potrebbe essere più vicino di quanto si pensi. Altro che Grecia.

A merito di Bankitalia va l’aver costruito un grafico che pesa l’influsso delle varie componenti sulla nostra infelice decrescita, che ci consente di apprezzare in che modo, e soprattutto quanto, la nostra fragilità abbia a che spartire col resto del mondo.

Ebbene, fatto 100 il contributo percentuale alla recessione, nella crisi 2008-9, l’Italia subì il suo crollo al 100% a causa degli eventi esterni. Le politiche di bilancio e le condizioni finanziarie allentate controbilanciarono le pesanti esternalità, assai superiori a 100, e alla perdita di fiducia, che aggiunse un altro 25% di contributo al crollo della nostra economia.

Nella crisi del 2012-13, lo scenario internazionale pesò sulla recessione circa il 30%, collegandosi per lo più al calo della domanda estera, mentre le politiche di finanza pubblica, notevolmente restrittive, furono responsabili per quasi il 40% della recessione. Le condizioni finanziarie avverse, con lo spread impazzito che rendeva il credito costosissimo per banche e imprese, contribuirono per un altro 25%, mentre il calo della fiducia per poco più del 20%.

Poco o nulla poterono le politiche monetarie, malgrado i policy maker abbiano “reagito con forza”. “Nel complesso – osserva Bankitalia – tra il 2011 e 2013 la discesa dell’attività economica è stata prevalentemente attribuibile a fattori di origine interna, che hanno compresso la domanda delle famiglie e le prospettive di investimento delle imprese, anche se il rallentamento dello scenario internazionale ha in ogni caso fornito un contributo non trascurabile, pari a circa il 30% del totale”.

Dal che è facile trarre le impietose e paradossali conclusioni: “Il deterioramento dell’attività produttiva verificatosi nel corso della crisi del debito sovrano è stato aggravato dalle debolezze strutturali dell’economia italiana: un basso potenziale di crescita mina la sostenibilità del debito pubblico e aumenta la percezione del rischio da parte dei mercati finanziari; squilibri di finanza pubblica aumentano i costi di approvvigionamento delle banche e riducono la quantità di credito a disposizione dell’economia; livelli eccessivi di pressione fiscale diminuiscono la competitività delle imprese e la capacità di spesa delle famiglie”.

Ciò vuol dire, in pratica, che non abbiamo molte vie d’uscita. Non possiamo usare il bilancio pubblico, come abbiamo fatto dopo la crisi del 2008-9, né possiamo continuare a usare la pressione fiscale, come abbiamo fatto fra il 2012-13.

La terza crisi, per noi, se mai arriverà sarà quella che chiuderà i giochi.

La doppia crisi italiana che prepara la terza

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