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La Corte Costituzionale ha rigettato il blocco della indicizzazione all’inflazione delle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo Inps, deciso nel 2011 dal Governo “Monti” nella manovra di correzione dei conti pubblici.

Motivo: rischio di adeguatezza delle pensioni, che può esser messa a repentaglio da reiterate interruzioni dell’indicizzazione, soprattutto se a esser coinvolte sono anche pensioni di importo medio-basso.

Eppure, fissare una soglia al di sotto della quale l’intervento non si applica e coinvolgere le pensioni più basse solo nel momento in cui l’urgenza della crisi è diventata più acuta (come avvenuto se si guarda alla serie di interventi sull’indicizzazione negli ultimi 15-20 anni) significa già incorporare nella manovra di finanza pubblica, tra gli obiettivi da bilanciare, anche quello di salvaguardia dei redditi più bassi e di rispetto del principio costituzionale di progressività.

La Corte si sarebbe dovuta limitare a riconoscere questi fatti, e invece si è addentrata nel merito di quanta progressività è accettabile e giusta, così spingendosi ai limiti del suo ufficio istituzionale ed entrando nella sfera di discrezionalità di scelta che è propria della politica.

Le scelte distributive non si compiono in astratto ma maturano all’interno dello specifico quadro macro-finanziario di cui scontano i vincoli di disponibilità di risorse. Il legislatore ordinario è obbligato a compiere queste scelte nel mondo reale e a prendersi responsabilità politica delle azioni; la Corte Costituzionale, quando travalica come in questa sentenza il confine delle sue competenze, è inevitabilmente esposta al rischio di affrontare le tematiche redistributive solo in astratto, perché sollecitata a esprimersi solo sulla tematica specifica sottoposta dal ricorrente, al di fuori di una cognizione complessiva del contesto, dei vincoli nazionali e internazionali, dei trade-off – anche di specifica natura distributiva – in cui matura la politica economica.

Per di più, ora la censura costituzionale prospetta maggiori spese per il bilancio pubblico quantificabili (stando alle informazioni circolate all’indomati della sentenza) tra i 2,5 e i 3 miliardi all’anno. Queste maggiori spese, che si innestano sul quadro macrofinanziario del Documento di Economia e Finanza già pubblicato e trasmesso in Europa, costringeranno a rivedere altre scelte di spesa proprio adesso che ci si sta sforzando di avviare una fase espansiva di politica economica.

Per fare un esempio molto concreto: è accettabile, in una quadro specializzato e bilanciato delle funzioni istituzionali, che sia la Suprema Corte, indirettamente ma come conseguenza di un suo atto, a far ridestinare 3 miliardi di Euro all’anno al capitolo pensioni sottraendolo alla possibilità di rafforzare e prolungare la decontribuzione sui contratti di lavoro di neoassunti a tempo indeterminato? Non dovrebbe questa scelta spettare al decisore politico, come parte di un programma di policy pensato anche nei suoi risvolti a medio-lungo termine?

È necessario cercare un nuovo equilibrio di rispetto tra il legislatore costituzionale e quello Ordinario. Il rischio, altrimenti, è quello di perdere spazio di azione, tempestività e certezza per le scelte di governo, qualità che sono essenziali sempre e soprattutto in momenti di crisi e di cambiamento.

Tutto ciò sia detto con il massimo rispetto istituzionale che si deve alla Suprema Corte e ai suoi componenti.

Pensioni, la Corte costituzionale ha ragione?

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