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Sento dire, e anzi ripetere, che la domanda di mutui cresce, e leggo sulla stampa di aumenti a due cifre delle compravendite. Mi chiama persino il mio bancario, chiedendomi se davvero non voglia approfittare dei tassi straordinariamente bassi, “come mai ho visto in venti anni che lavoro in banca”, e magari fare un debituccio per comprare una casa più grande.

Magari, mi dico. Ma per fortuna mi è rimasto un po’ di buon senso.

Capisco perciò che l’industria del mattone sta provando a far ripartire il suo motore arrugginito dalla speculazione dissennata dei primi anni 2000, spargendo qua e là semi di fiducia che si spera fioriscano con i soldi delle banche centrali.

Ma il velo di Maya dell’illusione monetaria, sapientemente tessuto dalla Bce, non può celare a lungo la mia ragionevolezza esercitata al lume dell’economia domestica.

Sicché, una volta strappato questo velo, appare nuda e cruda una semplice verità che le statistiche farlocche sui presunti rimbalzi immobiliari non possono celare: per comprare casa ci vogliono i soldi. E anche tanti.

Il denaro preso a prestito a basso costo non serve a niente se poi non dispongo di redditi sufficienti a onorare i mie debiti (a parte che nessuna banca mi darebbe un mutuo) e inoltre il denaro a basso costo non ha nessuna influenza diretta su quella che è poi la variabile più importante: il prezzo delle abitazioni.

Eh, ma dai, i prezzi sono calati dopo il 2008, direte voi. Certo, come no. L’Istat ce lo dice ad ogni rilevazione.

Però suggerisco di dare un’occhiata a un grafico che la Banca d’Italia ha pubblicato nell’ultimo bollettino economico di aprile, dove si raffigura in una curva l’andamento del prezzo delle abitazioni dal 2000 al 2014.

Ebbene, fatto 100 l’indice nel 2005, oggi siamo appena sotto, dopo aver toccato un picco vicino a 115 nel 2008.

Quindi è vero che i prezzi sono calati. Ma è vero altresì che siamo ai livelli del 2005, quando i prezzi erano in pieno boom. E se pensate che esagero, allora sappiate che nel 2000 l’indice quotava meno di 70.

Ciò significa che siamo ancora nella fascia alta della curva dei prezzi. E questo non c’è QE che possa cambiarlo. Anzi, semmai può solo incoraggiare ulteriori aumenti.

Se i prezzi sono questi (e le compravendite sono ancora intorno a un indice 55), bisogna chiedersi quali redditi dovrebbero sostenerli.

Bene, per avere una visione storica dell’andamento dei nostri redditi mi servo di una rilevazione pubblicata nel dicembre scorso sempre dalla Banca d’Italia, quella sui bilanci delle famiglie italiane, che per quanto recente è stata costruita sui dati del 2012. Ma tanto non mi pare ci siano stati significativi aumenti di reddito da allora. Al contrario: il prodotto è sceso.

Bankitalia nota che fra il 2010 e il 2012 il reddito familiare ha subito un calo del 7,3%. Che non sarebbe un gran problema se non si inserisse in un trend alquanto depressivo.

Per apprezzarlo, Bankitalia usa la definizione di reddito equivalente, che ha lo scopo di ricavare una misura che approssimi il livello di benessere economico.

Il reddito equivalente corrisponde in pratica al “reddito di cui ciascun individuo dovrebbe disporre se vivesse da solo per raggiungere lo stesso tenore di vita che ha nella famiglia in cui vive”.

Quindi, ad esempio, il reddito di cui dovrebbe disporre una persona che vive da single. Per la cronaca, tale reddito equivalente nel 2012 era 17.814 euro, come dato di media generale (indice 100/Italia)

La cosa interessante è che i dati presentati da Bankitalia mostrano l’andamento del reddito equivalente dal 1991 al 2012.

Quello che scopro, guardano i grafici, è alquanto deprimente. La categoria dei lavoratori dipendenti ha visto diminuire il suo indice dai 115 punti del 1991 a poco sotto 110 nel 2012. Quindi il loro reddito equivalente è diminuito di circa il 4% nel frattempo.

Gli autonomi, che partivano da 135 nel 1991, stanno poco sopra 140. Quindi per loro il reddito equivalente è cresciuto di quasi il 4%.

Il reddito equivalente delle persone d’incerta condizione professionale è rimasto piatto.

L’unico reddito cresciuto è quello dei pensionati, passato da 95 a 115: +21%.

Ne deduco che gli unici che forse si possono permettere di comprare una casa siano i pensionati, che hanno di sicuro risparmi da parte e una possibilità di sostenere la rata del mutuo con il proprio reddito. Peccato che di solito un anziano la casa ce l’ha già. Potrà comprarla per i figli allora, sempre che la banca accetti di fargli un mutuo ventennale alla sua età.

Per il resto di noi, che vive del proprio lavoro, l’enigma economico rimane: come dovremmo fare a comprare una casa coi prezzi del 2005 e i redditi del 1991?

Accetto suggerimenti.

Comprare casa con i prezzi del 2005 e i redditi del ’91

Sento dire, e anzi ripetere, che la domanda di mutui cresce, e leggo sulla stampa di aumenti a due cifre delle compravendite. Mi chiama persino il mio bancario, chiedendomi se davvero non voglia approfittare dei tassi straordinariamente bassi, “come mai ho visto in venti anni che lavoro in banca”, e magari fare un debituccio per comprare una casa più grande.…

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