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La Cina è come Dio: “Onnipresente e onnipotente”. La Repubblica Popolare Cinese rappresenta oggigiorno un attore imprescindibile del sistema internazionale, sia dal punto di vista politicodiplomatico che economico-finanziario, e l’avanzata degli investimenti cinesi a livello globale ne è una riprova.

Sistema monopartitico e protagonista della globalizzazione, la Cina oggi sorprende e spaventa quell’Occidente che guarda ancora al binomio capitalismo-democrazia come la fase più avanzata dello sviluppo sociale. Seguendo le molteplici pieghe della diversità cinese, la curiosità degli analisti finisce inevitabilmente per soffermarsi sul punto che sembra meglio rappresentarla: il sistema politico e il ruolo in esso esercitato dal Partito Comunista Cinese (PCC).

Il Partito è diventato ormai un’ossessione per l’Occidente – a volte anche leggenda – specie nelle sue manifestazioni più “inquietanti”: la repressione del dissenso all’interno e la proiezione della forza all’esterno. In entrambi i casi l’allarmismo e il sensazionalismo impediscono spesso un’analisi accurata di questi fenomeni, ponendo sullo stesso piano il livello politico, quello militare ed infine quello economico.

La crescita economica cinese è il frutto di quel rapporto simbiotico esistente tra l’apparato partitico e quello economico-istituzionale. Di fatti, gli investimenti esteri cinesi vengono a configurarsi come una sorta di entente tra gli interessi del Partito-Stato e quelli del comparto economico-aziendale.

Le riforme intraprese da Deng Xiaoping, alla fine degli anni Settanta, hanno permesso di avviare quel processo di trasformazione sistemica che ha visto la Cina passare da un modello incentrato sulla pianificazione centralizzata a un modello market-based. L’elaborazione del Decimo Piano Quinquennale (2001-2005) ha impresso una svolta significativa a questo processo di mutazione interna, poiché la formulazione della “going out strategy” ha permesso al Paese di dotarsi di quella proiezione esterna necessaria per il conseguimento del “capitalismo con caratteristiche cinesi”. Inoltre, le recenti riforme approvate fra il 2013 e il 2014 hanno catalizzato un processo di modernizzazione già in fieri.

Tali misure sono state elaborate dal Governo cinese al fine di incoraggiare e facilitare gli investimenti esteri. Pertanto, la politica dei piccoli passi intrapresa dal PCC aveva come scopo ultimo il consolidamento della posizione internazionale del Paese.

IL DECIMO PIANO QUINQUENNALE E LA “GOING OUT STRATEGY” 

L’internazionalizzazione delle imprese cinesi, che è stata favorita dall’apparato politico istituzionale, ha subito nell’ultimo decennio uno sviluppo straordinario. Gli investimenti cinesi hanno seguito principalmente due direttrici: da un lato, attraverso la forma degli IDE si sono favorite quelle attività commerciali di nuova formazione; dall’altro, attraverso le fusioni e le acquisizioni (M&A) si è cercato di penetrare in maniera più massiccia nuovi mercati al fine di acquisire vantaggi competitivi. Queste due forme di investimento si sono sviluppate consecutivamente in risposta ai mutamenti di politica economica, avviati con il Decimo Piano Quinquennale.

All’interno della cornice tecnico-economica, incarnata dal Decimo Piano Quinquennale, venivano tracciate le linee della più specifica “going out strategy” che prevedeva la necessità di invertire il trend della crescita economica: non soltanto l’attrazione di capitali all’interno come principale fattore trainante dell’economica cinese, bensì di uscita di capitali dalla Cina al fine di rafforzare la presenza internazionale delle imprese cinesi.

La nuova strategia fu elaborata da Governo, alla fine degli anni Novanta, per incentivare gli investimenti cinesi all’estero. Alla base di tale policy vi erano considerazioni di natura sia interna che internazionale. Dal punto di vista interno, il Governo cercò di promuovere il ruolo economico internazionale dei suoi campioni nazionali al fine di consolidare il prestigio del Paese. La politica della “porta aperta” inaugurata da Deng e l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio avevano favorito lo sviluppo economico del Paese, ma era necessario un ulteriore intervento per accrescere la competitività delle imprese nazionali.

Dal punto di vista internazionale, invece, il crescente accumularsi di riserve monetarie estere e la conseguente pressione sulla stabilità del renminbi (RMB) spinsero il governo ad adottare nuove misure economiche per favorire l’utilizzo di parte di tali riserva per acquisizioni cinesi di imprese straniere.

Secondo le stime riportate da uno studio condotto dalla Heritage Foundation assieme alla American Enterprise Institute su un arco temporale 2005-2014, differenziando gli investimenti per tipologia di settore e per Paese, emergo dati di notevole interesse.
In linea generale, appare interessante la configurazione di tali investimenti che vedono rispettivamente circa il 45% assegnato al settore energetico, il 14,30% al settore metallurgico, il 15,47% ai trasporti, il 3% alla tecnologia, il 9,82% al settore immobiliare, il 3,65% al settore agricolo e il 4,67% al settore finanziario.1 In Italia, ad esempio, i cinesi hanno investito 6.9$ miliardi principalmente nel settore energetico e in quello tecnologico.

Questi trend sembrerebbero indicare un mutamento fondamentale nella politica estera cinese, poiché la RPC sarebbe passata da maggiore esportatore di beni a maggiore esportatore di capitali.

L’ultima fase della “going out strategy” avrebbe visto un incremento notevole di investimenti in beni non tangibili (marchi, brevetti, competenze distintive, tecnologie) nella forma di M&A. Sono state favorite le fusioni e le acquisizioni come strategie di investimento poiché queste comportano costi iniziali relativamente contenuti rispetto alla creazione di filiali in un mercato straniero. La società straniera diviene dunque uno strumento attraverso il quale gli investitori cinesi familiarizzano con il sistema legale del Paesi di riferimento in termini di regolamentazione in ambito lavorativo, protezione ambientale e proprietà intellettuale.

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