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Il “sindacato-agenzia per l’impiego”, che sembra previsto nei nuovi decreti attuativi del Jobs Act, è un altro passo che lo avvicina a quel sindacato dei servizi che è ben conosciuto soprattutto in Nord Europa. A Susanna Camusso e Maurizio Landini l’idea non piacerà, ma non è certo un’invenzione del ministro Giuliano Poletti.

Del resto, anche da noi gli enti bilaterali che operano nell’artigianato e in edilizia vedono una presenza del sindacato con spiccate funzioni di servizio (per non parlare dei patronati e dei centri di assistenza fiscale). Insomma, secondo un vecchio vizio italico, “si fa ma non si dice”.

Anzi, spesso si dice il contrario. Piuttosto, merita di essere sottolineato il significato politico della proposta. Essa è una naturale conseguenza della guerra dichiarata da Matteo Renzi alla concertazione, base istituzionale del sindacato “soggetto politico” (quello che Landini tenta in ogni modo di rilanciare, fino a farne un partito sotto mentite spoglie).

Il premier non si è limitato a rimuovere la golden share che confederazioni dei lavoratori e associazioni imprenditoriali detenevano nella formazione delle decisioni pubbliche. Non si è cioè solo limitato a liquidare i “patti” all’italiana, carichi di riti barocchi e di bizantinismi procedurali.

Con la riforma del lavoro, ha rimesso in discussione quella peculiare alleanza tra economia concorrenziale e welfare assistenzialistico che ha sorretto nella Prima Repubblica la legittimità delle élite nazionali.

In altre parole, la partita aperta da Renzi riguarda ormai lo stesso rapporto tra democrazia e mercato, la stessa ridefinizione delle regole del gioco tra capitale e lavoro. E mi pare evidente che intenda arbitrarla tagliando ogni residuo cordone ombelicale tra rappresentanza parlamentare e rappresentanza degli interessi (sulla cui incompatibilità Hans Kelsen e Norberto Bobbio hanno scritto pagine magistrali).

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Ma Roberto Saviano è un iscritto o un elettore del Pd? Per cortesia, lo sveli alla nazione. In caso contrario, taccia. Anche uno scrittore sotto scorta dovrebbe essere più sobrio, e capire che il suo appello ai campani di disertare le primarie del Pd è stato un atto di arroganza politica intriso di moralismo untuoso (comunque il suo appello è stato un buco nell’acqua).

La vittoria di Vincenzo De Luca imbarazza Renzi? È probabile, ma quando si deciderà a ripensare da cima a fondo lo strumento delle primarie? Esso – bisogna riconoscerlo – ha costituito il tentativo più organico fatto a sinistra per fronteggiare la crisi dei partiti di massa. Ma – privo di regole o con regole alquanto garibaldine – è via via diventato il brodo di coltura di lotte laceranti tra capi locali e correnti nazionali, per l’affermazione di ambizioni spesso anche eticamente non edificanti.

La verità è che, quando sono state decise, non se ne sono previsti tutti gli esiti virtuali. Compreso quello – paradossale – che gli elettori, per partecipare e per contare di più, finiscono con l’essere utilizzati come truppe di assalto contro il nemico da ufficiali senza scrupoli.

Posso sbagliarmi, ma a mio avviso anche in questa luce vanno letti certi episodi di malaffare, se non di vera e propria corruzione, che ogni tanto gettano un’ombra sull’irreprensibilità del Pd.

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