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Perché l’area dell’euro è caratterizzata da squilibri crescenti tra Paesi del centro-nord e realtà mediterranee e periferiche? Le strategie promosse dalle istituzioni comunitarie sono riuscite a colmarli? E quali interventi sarebbero necessari per favorire un’inversione di rotta in un Vecchio Continente in preda alla spirale di austerità e recessione economica?

Ai tre interrogativi hanno tentato di fornire risposte gli studiosi coinvolti nel convegno “L’eurozona alla ricerca di un nuovo equilibrio”, organizzato ieri dall’Istituto Affari Internazionali.

Le conseguenze delle politiche restrittive

L’iniziativa ha costituito la cornice per l’illustrazione delle linee-guida dello studio “European Macroeconomic Imbalances and Policy Adjustments”, in corso di realizzazione ad opera dalla Luiss School of European Political Economy diretta dall’economista Marcello Messori.

Il team di ricercatori da lui guidato è partito dall’esame dei flussi di scambi commerciali e di capitali negli Stati membri dell’Euro-zona in un’ottica comparativa tra il 2008 e il 2014. E ha rilevato che gli aggiustamenti apportati dai vari governi non hanno prodotto conseguenze strutturali nelle nazioni vulnerabili, traducendosi in recessione e crollo dei prezzi, riduzione delle retribuzioni, aumento del tasso di persone prive di lavoro.

Lungi dal promuovere un recupero di competitività e produttività rispetto alle realtà forti, i Paesi più fragili hanno soltanto migliorato le prestazioni nelle partite correnti. Mentre i trasferimenti di risorse messi in atto dalle banche delle aree ricche hanno alimentato comparti altamente speculativi come le costruzioni edilizie in Spagna. Che non hanno rafforzato la capacità produttiva e l’economia reale, penalizzando peraltro le esportazioni.

Il Growth Compact

Anziché affidarsi alla “mano invisibile” del mercato, lo studioso prospetta l’esigenza di investimenti pubblici – “volano e moltiplicatore per quelli privati” – da parte dell’Unione Europea per colmare tali squilibri e asimmetrie.

Strategia che prevede l’adozione di un “Growth-Industrial Compact” accompagnato da “accordi contrattuali” specifici con i singoli Stati membri.

Ciascuno dei quali assume l’impegno a realizzare le riforme profonde per favorire la competitività di lungo termine. Accettando il controllo e la supervisione delle istituzioni comunitarie.

Perché adottare i project bond

Per privilegiare in forma asimmetrica gli investimenti verso i paesi vulnerabili, la strada da seguire passa per l’introduzione dei project bond.

Misura urgente, rimarca Messori: “Perché la stagnazione e la contrazione produttiva delle nazioni più fragili dell’Euro-zona renderà insostenibili i loro stessi debiti sovrani”.

Ragionamento condiviso dall’economista Veronica De Romanis, autrice del libro “Il caso Germania”. A una condizione, però: “I contratti bilaterali dovrebbero essere firmati da tutti. E gli strumenti finanziari acquistati dalla Banca centrale europea dovrebbero riguardare non solo i derivati ma anche i titoli di Stato”.

Spagna modello virtuoso?

Riguardo ai risultati delle politiche realizzate nei paesi periferici dell’Euro-zona, la studiosa riscontra un’eccezione rilevante nella Spagna.

Ricorda come il governo di Madrid, al pari della Germania di Gerhard Schroeder nel 2002-2003, abbia promosso una riforma del lavoro fondata su sgravi fiscali e contributivi per le aziende che assumono, un rinnovamento della pubblica amministrazione basato su tagli incisivi dei costi per l’acquisto di beni e per i salari del personale, una semplificazione delle regole per la creazione di imprese, un intervento a favore dell’educazione centralizzando l’organizzazione delle università.

“Così – osserva – oggi la Spagna non è più in recessione, e attrae investimenti esteri soprattutto nel mercato automobilistico con 2 milioni di macchine fabbricate ogni anno”.

Lo spettro di un ristagno prolungato

A mettere in relazione la divaricazione nello sviluppo economico dell’area euro e le modalità di costruzione dell’Unione monetaria è Paolo Guerrieri, senatore del Partito democratico e professore di Economia internazionale all’Università “La Sapienza” di Roma.

Squilibri – precisa lo studioso – paradossalmente attenuati con la crisi del 2007-2008, grazie a una convergenza nella contrazione produttiva e della richiesta di beni e servizi. Che si sono riverberate nella compressione delle attività e delle retribuzioni negli Stati più fragili dal punto di vista finanziario.

Un fenomeno che rischia di sfociare nel ristagno di lungo periodo, visto che gli Usa non vogliono più essere i consumatori mondiali di ultima istanza e che le nazioni emergenti rallentano a seguito del loro boom economico. “E un ristagno prolungato rende difficile la sostenibilità dei debiti sovrani, alimentando una progressiva rivolta sociale e politica contro le strategie restrittive”.

Regole rigorose anche per la Germania

L’alternativa ragionevole contempla per il parlamentare Pd un pacchetto di precisi investimenti pubblici e privati europei, una politica monetaria in grado di supportare la domanda aggregata, un riequilibrio economico-sociale in un’Euro-zona che può contare su 330 milioni di consumatori mediamente benestanti.

E l’applicazione, ad opera della Commissione Ue, di regole eque non solo verso le nazioni in deficit ma anche nei confronti dei paesi in surplus di bilancio come la Germania: “La cui bilancia commerciale va oltre il limite europeo del 6 per cento del PIL”.

L’Italia attui le riforme liberali

Priorità a cui Beniamino Quintieri, economista dell’Università di Roma “Tor Vergata” e presidente della Fondazione Manlio Masi, affianca la svalutazione del cambio reale dell’euro verso il dollaro, il compimento di riforme strutturali nella giustizia, nel lavoro, nella burocrazia, la riduzione delle tasse su imprese e lavoro, la gestione statale o comunitaria delle risorse stanziate per gli investimenti Ue.

La volontà del governo tedesco

Profondo scetticismo per la possibilità di tradurre in realtà le ricette proposte da Messori è manifestato da Fabrizio Saccomanni, Senior economic advisor presso l’Istituto Affari Internazionali e già ministro dell’Economia e Finanze: “Il governo tedesco non le accoglierà mai. Ricordo non a caso che in Germania la parola “debito” vuol dire anche “colpa da espiare”.

Berlino, ammonisce l’ex capo del Tesoro, verrà a dirci che che era preferibile realizzare investimenti produttivi lungimiranti nella stagione di espansione economica e di spread tollerabili. Ma per farli erano necessarie le riforme strutturali virtuose, che in Italia per vent’anni nessuno ha pensato di mettere in cantiere.

Adesso la crisi ha messo a nudo e fornito la percezione tangibile della gravità di un passivo di bilancio elevato associato a una stagnazione produttiva. E l’arma monetaria messa in campo da Mario Draghi per combattere la spirale recessiva deve fronteggiare i limiti statutari della Banca centrale europea.

Fare leva su Bce e Cdp

Agli occhi dell’ex ministro l’unica strategia espansiva coerente passa per un pacchetto di investimenti infrastrutturali europei supportati dalla raccolta dei capitali privati.

Politica che contempla l’utilizzo della Bei e delle casse depositi e prestiti degli Stati membri.

Ma il requisito essenziale per renderla virtuosa ed efficace è “la previsione di un progetto politico ben preciso. A partire dal terreno energetico e dalle frontiere della tecnologia digitale, che richiedono il coinvolgimento di tutti i gruppi industriali del Vecchio Continente”.

Perché la Germania dirà sempre "No" a un patto Ue per la crescita. Parla Saccomanni

Perché l’area dell’euro è caratterizzata da squilibri crescenti tra Paesi del centro-nord e realtà mediterranee e periferiche? Le strategie promosse dalle istituzioni comunitarie sono riuscite a colmarli? E quali interventi sarebbero necessari per favorire un’inversione di rotta in un Vecchio Continente in preda alla spirale di austerità e recessione economica? Ai tre interrogativi hanno tentato di fornire risposte gli studiosi coinvolti…

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