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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori, pubblichiamo l’analisi di Gianfranco Morra uscita oggi sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Tra Roma e Firenze si è rotta la sinistra? In nessun modo. Spaccata lo era già da tempo e ciascuno dei due pezzi ha celebrato in perfetto stile la propria liturgia. Si sono scontrate due diverse risposte alla fine della vecchia sinistra, operaia e sindacale, comunista e ideologica, burocratica e piazzaiola: una risposta senile, tutta centrata su ingiallite fotografie, vecchie canzoni e patetiche medaglie; e una risposta innovativa, consapevole che il problema, oggi, più che cambiare i partiti, è cambiare la politica.

Perché abbiamo alle spalle una drammatica svolta epocale.

La Tv ha dato rilievo ad entrambe le manifestazioni e abbiamo potuto vederne la macroscopica differenza. A Roma, da sempre sede del vecchio potere, sono state celebrate le nozze d’oro tra partito e sindacato. Dopo tanti anni di matrimonio, quanti ricordi! Sposatisi appena caduto il fascismo, hanno contribuito alla storia del nostro paese, nelle conquiste e ancor più nel disastro. Comprensibile questo amarcord del tempo che fu: «Compagni avanti il gran Partito / noi siamo dei lavoratori».

Questi due sposi li aveva ogni democrazia occidentale, ma in Italia, i due sposi della sinistra, partito e sindacato, costituivano una anomalia. Il Pci è stato un insuperabile ostacolo alla nascita del bipolarismo. Il fattore K impedì all’Italia di avere una democrazia compiuta dell’alternanza: la sinistra era egemonizzata dal partito comunista più forte d’Europa e la destra, definita e ghettizzata come fascista, non poteva nascere. Mentre la sinistra europea sceglieva il modello riformista e socialdemocratico, il Pci restava stalinista e centralista, del tutto privo di democrazia nell’organizzazione e nei programmi.

Anche i sindacati scelsero la via dell’oltranzismo. Operavano per la difesa dei lavoratori, ma soprattutto per essere una forza di potere politico, forse la più potente, che condizionava i governi e li faceva cadere come birilli. A partire dagli anni Settanta, pretesero e ottennero concessioni e mutamenti di forte impatto, che si tradussero in diminuzione della efficienza e in aumenti del costo della produzione. La crisi economica attuale ha molte cause, ma una delle più rilevanti, da noi, è stata l’irrazionale condotta dei sindacati.

Ciò avveniva mentre nei paesi più accorti la sinistra faceva esattamente il contrario: si pensi alla Bad Godesberg e alla Mitbestimmung della Germania, e, più tardi, alle riforme dei socialisti Schröder e Blair. Da noi le più importanti istituzioni della sinistra remavano contro il progresso economico e sociale. E continuarono anche quando fu evidente, con la caduta del comunismo, che erano sulla via sbagliata. Anziché trasformarsi, la sinistra si è arroccata in una difesa sterile e anche ridicola di strategie paralitiche: istituzioni autoreferenziali, nelle quali vecchi burocrati cercavano solo di mantenere il potere mentre cadeva la fiducia dei cittadini.

La manifestazione di Roma, che ha puntato sull’insoddisfazione di giovani e disoccupati, ha avuto successo, ma per opporsi alla crisi non poteva essere più inutile e retrograda. Non a caso è stata organizzata solo dalla Cgil, gli altri sindacati l’hanno snobbata. E la stragrande maggioranza dei dirigenti del Pd non c’è andata. A Firenze è suonata un’altra musica. Non senza qualche stecca e dissonanza, dato il caratterino del Demiurgo, ma certo si è udito un discorso nuovo, che, nel suo nucleo essenziale, è la consapevolezza che occorre dare una risposta ad una situazione sociopolitica e ancor più culturale del tutto diversa da quella della prima Repubblica. Che doveva essere sepolta nel 1989, ma in un paese di ritardatari e opportunisti come il nostro è rimasta in tenda ad ossigeno per 25 anni. Uomini della vecchia guardia, tenori da operetta come D’Alema e Bersani, non potevano certo farlo.

Per staccare la spina ci voleva un uomo formatosi nell’era post-comunista come Renzi. Cosa ha capito Matteo? Telegraficamente:

1. al partito forte, occorre sostituire un partito leggero e fluido, aperto alle scelte mutevoli dei cittadini (alle europee, col 40,8 %, ha vinto lui, nonostante il partito); in tal senso non ha creato una corrente, ma smantellato il partito delle correnti;

2. rivedere le categorie destra e sinistra, non già per negarle, ché sempre ci saranno come le loro idee-forti, libertà ed eguaglianza, ma per superare il dualismo manicheo e produrre una alternanza decisa dai cittadini;

3. le ideologie sono in crisi e gli elettori considerano i vecchi partiti fossili prediluviani (4 % di italiani ne hanno fiducia);

4. i metodi della concertazione, consociazione e lottizzazione vanno superati in una divisione dei compiti, che impone al parlamento di rimanere nel campo legislativo e accentua l’operatività, controllata ma non impedita, del potere esecutivo;

5. ci vuole una democrazia del premier, scelto con le primarie, nelle quali convergono il partito e l’elettorato; non un Partito di Renzi, ma l’unica forma oggi possibile della sinistra, la democrazia riformista.

Si tratta di una rivoluzione culturale, che gli italiani vogliono, come mostrano gli indici di consenso. Una rivoluzione appena cominciata, che cancella i privilegi di caste intoccabili (politici, sindacalisti, burocrati, magistrati, ministeriali, enti locali e inutili) e ne suscita le reazioni. Renzi potrebbe in ogni momento essere licenziato, perché non ammette mediazioni («o Cesare o a casa»). Più che supportato è sopportato dalle vecchie guardie «faute de mieux», in mancanza di meglio. Alla Leopolda ha offerto un fidanzamento agli italiani. Come premier, ma anche come segretario di un partito sinora incapace di rinnovarsi a fondo col pericolo di divenire insignificante. Ma il vero matrimonio ha davanti a sé innumerevoli ostacoli ed è ancora lontano.

Perché il Pd non può non essere renziano

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