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La deposizione di Giorgio Napolitano ai giudici del processo in corso a Palermo sul presunto negoziato fra apparati istituzionali ed esponenti di Cosa nostra ha fatto emergere novità o verità di rilievo? Ha registrato una sconfitta per le tesi della Procura? Si è trattato di una “messa in scena indecente e oltraggiosa” per la più alta autorità della Repubblica?

Attorno a questi e altri interrogativi Formiche.net è tornato a interpellare Giovanni Pellegrino, avvocato con spiccata sensibilità garantista, già parlamentare dei Democratici di sinistra e presidente della Commissione stragi dal 1996 al 2001.

Come valuta la testimonianza rilasciata dal Capo dello Stato al Quirinale?

Il Presidente della Repubblica, con grande senso istituzionale, non si è mai avvalso del diritto alla riservatezza che pure la Corte Costituzionale gli aveva riconosciuto. Ha risposto a tutti gli interrogativi, descrivendo con correttezza a giudici e pubblici ministeri come funzionano le istituzioni parlamentari. Mostrando allo stesso tempo di conoscere perfettamente lo svolgimento di indagini e processi.

Ritiene che siano emerse rivelazioni significative?

Tutto ciò che ha affermato Giorgio Napolitano resta all’interno di quanto è già noto. A partire dalla consapevolezza della metamorfosi di strategia promossa dalla Cupola mafiosa all’inizio degli anni Novanta. Modalità terroristiche di attentati indiscriminati sul continente finalizzati a colpire persone innocenti. Una variante assoluta rispetto alla tipicità degli eccidi perpetrati fino ad allora da Cosa nostra. Assassini calibrati su obiettivi ben precisi in terra siciliana: nemici storici, pentiti e loro parenti, imprenditori che rifiutavano di pagare il pizzo.

Per le stragi del 1993 il Capo dello Stato parla di “logica unica e incalzante orientata a una destabilizzazione politico-istituzionale”.

Già all’epoca era evidente a gran parte del ceto politico la volontà di provocare uno sbandamento nelle autorità dello Stato per ottenere benefici legislativi in una logica di scambio. Ed era chiarissima la matrice mafiosa degli eccidi del biennio 1992-1993. Mi chiedo quali passi verso la conferma delle tesi accusatorie siano stati compiuti con la testimonianza del Presidente. Nessuna valutazione eclatante né riscontri significativi sono trapelati in merito a una trattativa fra Stato e criminalità mafiosa. Che resta avvolta nel vago.

Non ha fondamento l’ipotesi formulata dalla Procura di Palermo?

I rappresentanti dell’accusa tentano di dare corpo alle ombre. E, come rilevato da Napolitano, pretendono una memoria degna di Pico della Mirandola riguardo fatti risalenti a oltre vent’anni fa.

Ma allora a quale obiettivo furono improntati i canali aperti dal Ros dei Carabinieri con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino?

Al riguardo suggerirei di rileggere la lettera che Carlo Alberto Dalla Chiesa scrisse all’ex responsabile dell’Interno Virginio Rognoni sulla lotta alle Brigate rosse. Nella quale il generale caldeggiava non tanto una strategia di infiltrazioni del terrorismo rosso, bensì un percorso di penetrazione capillare e progressiva degli ambienti contigui alle Br. Era una strada che contemplava passi indietro tattici e spazi di temporanea impunità per singoli appartenenti ai gruppi armati, pur di giungere all’obiettivo di sconfiggere l’eversione.

Una strategia molto rischiosa, che si muoveva su un terreno scivoloso.

La cultura del sospetto per tanti anni imperante e dilagante nel nostro paese avrebbe condannato Dalla Chiesa per “i passi indietro compiuti nei confronti dei terroristi”. Mario Mori, nel 1992 figura di spicco dei Ros e oggi imputato per la presunta trattativa con i boss della Cupola, proveniva dall’esperienza intrapresa dal generale. E seguì tale logica investigativa nel tentativo di stabilire un contatto con il gruppo mafioso facente capo a Bernardo Provenzano.

L’offensiva stragista contro le istituzioni era portata avanti solo da Cosa nostra?

Sì. Può darsi che pezzi dell’apparato statale o centri di potere occulto temessero i profondi cambiamenti degli equilibri politico-istituzionali che all’epoca andavano prefigurandosi. E che volessero ristabilire vecchi assetti, magari ricorrendo al “terrorismo mediatico” della fantomatica e sedicente Falange armata.

Nella notte degli attentati di Milano e Roma corremmo veramente il rischio di colpo di Stato evocato dall’allora capo del governo Carlo Azeglio Ciampi?

Si trattò di un timore generale avvertito nel mondo politico.

Il consigliere del Presidente per gli Affari di giustizia Loris D’Ambrosio nutriva il timore di “essere stato considerato negli anni 1989-1993 un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”.

Era solo un sospetto. Evidentemente non suffragato da riscontri probatori. Anche perché fu lui a tradurre in testi legislativi coerenti la strategia di lotta a Cosa nostra prospettata da Giovanni Falcone. Su tale vicenda la Corte d’Assise di Palermo potrebbe utilmente ascoltare le persone che lavorarono con D’Ambrosio all’Ufficio Affari penali del Ministero della Giustizia.

Il giurista scomparso nel 2012 si chiede se “la morte di Giovanni Falcone fu accelerata dalla sua nomina a Procuratore nazionale anti-mafia”.

Falcone stesso temeva uno scenario del genere. I boss mafiosi conoscevano i movimenti del magistrato, sapevano che sarebbe tornato a Palermo quel sabato 23 maggio 1992 e avrebbe attraversato lo svincolo di Capaci. Avevano preso con grande accuratezza tutte le misure per portare a compimento l’attentato.

Riferiscono i pm che ascoltando alcune audizioni alla Commissione parlamentare anti-mafia D’Ambrosio era turbato al punto da desiderare di indagare in prima persona.

Non conosco bene i verbali dell’organo bicamerale di inchiesta sulla criminalità mafiosa. Ricordo che a lanciare dubbi e sospetti su una possibile trattativa furono l’ex Guardasigilli Claudio Martelli e l’ex capo del Viminale Vincenzo Scotti. I quali argomentarono la loro sostituzione al governo con Giovanni Conso e Nicola Mancino con una scelta di ammorbidimento delle istituzioni nei confronti di Cosa nostra. Molti in politica tendono a sopravvalutare il proprio ruolo. Tutto ciò potrebbe aver allarmato D’Ambrosio.

La mancata conferma del regime penitenziario duro per 330 affiliati alla mafia ad opera di Conso nel novembre 1993 rappresentò il primo cedimento dello Stato alle bombe di Cosa nostra?

No. Né fu il frutto di negoziato o accordo tra istituzioni e boss. Forse si trattò di un arretramento tattico promosso in modo unilaterale dal Guardasigilli dell’epoca, che ne assunse piena responsabilità. Per di più il provvedimento concerneva esponenti mafiosi di secondo piano, mentre le figure di spicco di Cosa nostra restavano soggette al 41 bis.

I pm di Palermo hanno ripetutamente interrogato il Capo dello Stato sulle iniziative parlamentari contrarie all’adozione del 41 bis.

Ricordo che quelle battaglie le intrapresero alla luce del sole i Radicali di Marco Pannella e rappresentanti garantisti come Luigi Manconi. Nella convinzione che tale regime carcerario violasse i confini della civiltà giuridica e i diritti elementari da riconoscere anche al responsabile dei peggiori crimini. La legittimità delle loro argomentazioni critiche venne riconosciuta dalla Corte Costituzionale che pure ha ammesso la validità della norma, e dagli stessi magistrati del processo di Palermo.

Cari pm di Palermo, perché date corpo alle ombre? Parla Giovanni Pellegrino

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