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Di sorprendente, nella rottura notturna in diretta consumatasi fra Michele Santoro e Marco Travaglio durante la trasmissione “Servizio Pubblico” de la 7, c’è solo il ritardo con il quale il conduttore televisivo, e giornalista di lungo corso, si è accorto degli eccessi del suo ormai ex collaboratore, a meno di ancor più sorprendenti riconciliazioni professionali e umane.

E’ da una vita che Travaglio, deragliato infine sui binari del “governatore” ligure Claudio Burlando, esercita il suo indubitabile diritto di critica in una maniera spesso odiosa, insultando chiunque gli capiti a tiro. Persino storpiandogli il nome per deriderlo. O usando come armi appuntite, anche contro persone non presenti in trasmissione e non in grado quindi di difendersi o replicare, spezzoni di documenti giudiziari, avulsi da ogni contesto, selezionati al solo scopo di far dire al magistrato di turno anche quello che in realtà non ha detto o scritto contro il bersaglio sceltosi dal giornalista.

Per quanto tardi, Santoro ha fatto in tempo a liberarsi di cotanto collaboratore, e a salvare probabilmente anche un po’ dell’ascolto che sta perdendo, per evitare che la sua trasmissione si traducesse in un supplemento della offensiva para-giudiziaria portata ormai alle estreme conseguenze da Travaglio contro il capo dello Stato, a supporto del processo in corso a Palermo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella ormai lontana stagione delle stragi, fra il 1992 e il 1993. Un processo che, basato su un assai fragile impianto d’accusa riconosciuto o denunciato da giuristi e magistrati di provata esperienza, cammina ormai più sulle gambe delle polemiche giornalistiche che su fatti reali e provati.

E’ ancora fresca di stampa l’ultima accusa di Travaglio al presidente della Repubblica, da lui trasferito sulle colonne del Fatto Quotidiano dalla posizione già impropria e discutibile di testimone a quella di imputato virtuale. Sostanzialmente accusato, in particolare, dall’immaginifico supporter della Procura di Palermo di avere in qualche modo sigillato il presunto accordo fra Stato e mafia partecipando come ministro dell’Interno, nel primo governo di Romano Prodi, fra il 1996 e il 1998, alla chiusura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara. Dove i mafiosi non gradivano scontare le loro pene con il trattamento duro.

Non contento di questo supporto alla presunta intesa fra Stato e mafia, l’allora ministro dell’Interno avrebbe impostato, sempre secondo le accuse di Travaglio, la demolizione del fenomeno dei pentiti e il boicottaggio delle loro collaborazioni con gli inquirenti. Un’opera, questa attribuita a Napolitano, che avrebbe poi portato a termine con un’apposita legge il compagno di partito Piero Fassino in veste di ministro della Giustizia.

Di tutta questa costruzione fantasmagorica Santoro ha appena fatto in tempo ad evitare di trasformarsi in un megafono, cogliendo al volo l’occasione offertagli dagli insulti a Burlando per le tragedie idrogeologiche ricorrenti a Genova per liberarsi del suo ormai troppo ingombrante “editorialista”. A forzare cose e situazioni, d’altronde, basta e avanza lui, Santoro. Massiccio già di suo, non aveva e non ha bisogno di un sovrappeso: non di ascolto ma di insulti e di autogol. L’editore probabilmente ringrazia.

Francesco Damato

La fuga di Travaglio libera Santoro

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