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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Domenico Cacopardo apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Non è detto che il presidente del consiglio ce la faccia. Non si tratta di essere gufi o pappagalli, si tratta d’essere consapevoli della complessità della situazione, prima di tutto europea, nella quale deve guidare l’Italia. Insieme ai problemi della crisi generale, ci sono le diseconomie interne, le posizioni parassitarie, la caduta della produttività, l’inefficienza del sistema giudiziario, una concezione dei rapporti sociali, ormai da anni ovunque abbandonata. Pensiamo ai lavoratori le cui aziende debbono chiudere o ridimensionarsi. Da noi è normale che blocchino ferrovie e autostrade, che occupino Roma, che, insomma, tentino di scaricare le loro drammatiche questioni sulla comunità nazionale. Lo schema aveva rilevanti possibilità di successo sino agli anni ’90: le partecipazioni statali consentivano allo Stato di assumersi l’onere di gestire aziende decotte o in difficoltà, riuscendo, in qualche caso a risanarle. Il più delle volte continuavano a essere idrovore che consumavano la ricchezza nazionale. Anche questo c’è nel conto dell’immenso debito pubblico italiano.

Ora no. I vincoli comunitari impediscono operazioni di salvataggio a spese degli stati. Perciò, i lavoratori possono occupare quello che vogliono, ma la comunità nazionale e, quindi, il governo non possono intervenire nell’unico modo utile: mettendoci quattrini. Salvo quelli degli ammortizzatori. Il paradosso è che il sindacato non si assume la responsabilità di dire la verità, anzi specula sulle crisi, mettendosi alla testa delle inutili manifestazioni di piazza che le accompagnano. Al divieto di aiuti di Stato, si sommano i vincoli allegramente accettati, gli errori del ’98, quando l’accoppiata Prodi&Ciampi definì le ragioni di cambio lira-euro, l’assenza di una seria politica riformista, che hanno aggravato il disastro sino alle dimensioni attuali.

Ora, alle difficoltà di maneggiare i rapporti internazionali e la crisi interna, si aggiunge un serio nemico che si aggira a Roma, a Bruxelles e Firenze: si chiama Matteo Renzi. L’approccio dell’ex sindaco di Firenze ai problemi dell’Europa e del governo è stato, quantomeno, discutibile. I politici di livello gestiscono il piccolo o grande potere affidato loro in due modi: ci sono quelli sicuri di se stessi che si affidano a collaboratori esperti, per dirla in modo chiaro, di serie A; ci sono quelli insicuri che si affidano agli amici, senza guardare alla qualità professionale degli stessi.

Tra i primi ricordo, per personali esperienze, Fanfani, Moro, Craxi e D’Alema. Fra i secondi, il più significativo è stato Romano Prodi, sempre pronto a preferire l’amico del proprio cerchio magico (il caso Rovati è il più noto, ma ce ne sono tanti altri) al professionista capace. Craxi, per esempio, aveva intorno una squadra di compagni di strada di tutto rispetto: da Amato a Martelli, da Formica a De Michelis. E l’ingresso dei socialisti al governo, nell’80, si caratterizzò con iniziative di grande significato innovativo. Il giro di De Michelis per le fabbriche, nelle quali, nel pieno di un’altra crisi, si incontravano agguerrite cellule terroristiche, mostrò il volto di un governo coraggioso nell’affrontare i problemi a viso aperto. In qualche modo, una tecnica mutuata dall’attuale «premier» che non manca occasione per andare nelle scuole, nelle fabbriche, nei luoghi del disagio.

Quanto all’Europa, e non poteva essere diversamente, vista la combinata inesperienza di Renzi e dell’ectoplasmatica ministra Mogherini (che continuerà a non esistere a Bruxelles, ragione questa della sua generale approvazione) il semestre italiano è stato francamente sprecato. Aveva il potere, Renzi, di iniziarlo convocando una riunione, non sulle difficoltà dei vari paesi, ma sull’Unione, sullo suo stato e sulle più urgenti esigenze per andare avanti nel processo di integrazione (unica vera risposta alla crisi) con, per esempio, l’armonizzazione fiscale (divieto di dumping), la creazione di una Fbi e di una forza armata europee, una reale politica di sviluppo.

Non è stato così. L’unico incontro di qualità politica è stato quello della scorsa settimana. Ma i risultati sono stati modesti e di corto respiro. Ecco, se Renzi non rinnoverà profondamente la sua squadra di governo, se insisterà nel preferire gli amici fidati ai professionisti di riconosciute qualità, potrà sempre scivolare nella trappola che gli faranno trovare i vecchi marpioni europei e italiani e/o nella grave intensità dei problemi. È questa l’ombra che permane su un processo di rinnovamento della politica italiana che apprezziamo e di cui vorremmo il successo.

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