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Bocciato all’esame di diritto amministrativo a causa dell’abominevole massacro delle amministrazioni provinciali, poi invitato a ritirarsi all’esame di diritto costituzionale dove si era presentato con una tesina sul disegno di legge Boschi, il premier Matteo Renzi è in procinto di non superare neppure l’esame di diritto del lavoro.

Non gli viene rimproverato lo schema di decreto legislativo in materia di contratto a tutele crescenti, ma il modo con cui risponde alle critiche che gli vengono rivolte. Che senso ha, per esempio, replicare che, per quanto riguarda il pubblico impiego, il Parlamento potrà intervenire nella sede del disegno di legge delega Madia (peraltro finito su di un binario morto) quando basterebbe ricordare che al settore non si applica il licenziamento economico individuale e che, per quanto riguarda il recesso per motivi disciplinari, è in vigore la casistica prevista dall’art. 55-quater del dlgs n.165 del 2001 in cui è incluso, persino, lo scarso rendimento?

E’ opportuno omogeneizzare la disciplina? Bene. Si adottino, allora, delle norme di coordinamento, senza estendere a capocchia delle regole che non c’entrano nulla, soltanto perché è ‘’politicamente corretto‘’ sparare sulla Croce rossa del pubblico impiego.

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E la questione dei licenziamenti collettivi? La materia è disciplinata dalla legge n. 223 del 1991, che ha sostanzialmente recepito e ampliato una procedura contenuta in accordi interconfederali risalenti agli anni ’50 e ‘60 del secolo scorso. In sostanza, la tutela contro i licenziamenti collettivi (in numero di almeno cinque) si risolve in un confronto sindacale da svolgersi in un tempo definito e che può concludersi con un’intesa o con un verbale di mancato accordo.

Terminata la procedura, il datore di lavoro ha la facoltà di procedere ai licenziamenti (non necessariamente nel numero richiesto ma anche in un uno inferiore), mentre le organizzazioni sindacali acquistano – se non vi è stato accordo – piena libertà d’azione.

A questo punto il datore – il quale fino a quel momento ha esposto solo l’esigenza di ridurre numericamente il personale – è autorizzato ad inviare le lettere di licenziamento nominative a propri dipendenti considerati in esubero. Così, in pratica, il licenziamento collettivo si trasforma in singoli licenziamenti economici individuali, in quanto l’imprenditore è tenuto a seguire dei criteri (anzianità di servizio, carichi di famiglia, ecc.) nell’individuazione dei licenziati, i quali possono ricorrere al giudice se ritengono violata l’applicazione dei criteri di legge nei loro confronti e fruire delle tutele previste, compresa, secondo la precedente normativa, la reintegra nel posto di lavoro (nei casi limitati di cui alla legge Fornero). Il datore, però, è legittimato – su questo punto i sindacati tacciono –  a licenziare altri lavoratori al posto di quelli reintegrati.

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Che cosa cambierebbe a seguito delle nuove disposizioni del Jobs act Poletti 2.0? Per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del nuovo regime la sanzione, arrivati alla conclusione della procedura collettiva, sarebbe la medesima di quella prevista per il licenziamento economico individuale: ovvero un’indennità risarcitoria. Il che sembra corretto essendo i licenziamenti collettivi tipicamente economici e per di più essendo preceduti (e tutelati) da un confronto in sede sindacale. Resta il problema, anche in questo caso, delle differenti normative che continuerebbero a valere per le ‘’vecchie’’ assunzioni. Ma il ‘’dualismo’’  vecchi/nuovi è il principale difetto di tutto il provvedimento.

Vi svelo un paio di papocchi prodotti dalla riforma del lavoro

Bocciato all’esame di diritto amministrativo a causa dell’abominevole massacro delle amministrazioni provinciali, poi invitato a ritirarsi all’esame di diritto costituzionale dove si era presentato con una tesina sul disegno di legge Boschi, il premier Matteo Renzi è in procinto di non superare neppure l’esame di diritto del lavoro. Non gli viene rimproverato lo schema di decreto legislativo in materia di contratto…

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