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Di seguito il testo della quarta puntata di Oikonomia, rubrica settimanale di Marco Valerio Lo Prete (giornalista del Foglio) ospitata da Radio Radicale. Ogni lunedì mattina, dopo la rassegna stampa, potrete ascoltare una nuova puntata. (Qui tutti gli audio di Oikonomia e i testi finora pubblicati). 

Negli ultimi mesi l’economia dell’area euro è tornata a rallentare, questa volta frenando anche la crescita dell’economia tedesca. Non tramonta però il ruolo di leadership continentale esercitato da Berlino. Leadership economica, dunque politica, ma anche intellettuale e teorica. Non a caso l’establishment della prima potenza economica del Vecchio continente ha spesso rivendicato di ispirare le sue ricette rigoriste e riformatrici per l’Europa ai dettami di quella che definisce “economia sociale di mercato”.

Una dimostrazione plastica di questa leadership si è avuta questa settimana, con l’inizio delle audizioni parlamentari per la nuova Commissione europea. Il nuovo esecutivo dell’Unione europea, che rimarrà in carica fino al 2019, è guidato dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, leader dei Popolari europei e che ha quindi il sostegno della Cdu di Merkel; anche la sua squadra, a detta di molti osservatori, è discretamente filo Berlino nelle sue intenzioni politiche. D’altronde anche nel programma elettorale dei Popolari europei e di Juncker figurava un tema molto caro all’establishment tedesco, cioè la creazione di una “economia sociale di mercato”.

Perfino nel trattato di Lisbona in vigore dal 2009, “l’economia sociale di mercato” è uno degli obiettivi del processo d’integrazione. Di cosa stiamo parlando, dunque? L’economia sociale di mercato è quell’insieme di tesi che informarono la politica economica tedesca nel secondo dopoguerra, cioè nel periodo del miracolo economico della Repubblica federale, “Wirtschaftswunder”. Non si tratta di un sistema teorico perfetto, ma di una formula nella quale sono confluiti col tempo filoni diversi come il liberalismo “ordinamentale” di Walter Eucken (scuola di Friburgo), le tesi di Ludwig Erhard (nel 1949 nominato ministro per gli Affari economici dal cancelliere Konrad Adenauer, scuola di Francoforte) e quelle di Alfred Müller-Armack (scuola di Colonia). Tutti autori che non condividono la concezione del liberalismo classico secondo cui la sola instaurazione della libertà economica porterebbe, in modo spontaneo, alla costruzione del miglior ordinamento possibile dell’economia e della società. E che però non vanno confusi genericamente con dei teorici del “compromesso socialdemocratico”. Ludwig Erhard, a proposito dell’espressione “economia sociale di mercato”, precisava: “I concetti di ‘libero’ e di ‘sociale’ coincidono, cioè quanto più libera è l’economia, tanto più è anche sociale”.

Da qui discende – da parte dei teorici dell’economia sociale di mercato – una difesa strenua della libertà del mercato e della concorrenza, della stabilità della moneta e dell’autonomia delle scelte individuali, il che comporta limiti definiti all’azione dello stato. Il governo dell’economia esiste, ma il suo compito è quello di “stabilire, mediante un assetto costituzionale, delle regole del gioco per il funzionamento del mercato”. Regole di rango costituzionale – così da risultare meno volatili – che “nel campo economico debbono assicurare il diritto di proprietà, la libertà di contratto, la libera iniziativa, la libertà degli scambi internazionali, la prevenzione e la repressione degli abusi di potere di monopolio, la parità di trattamento fiscale (…) ma anche la stabilità della moneta e il pareggio di bilancio” (tratto da Francesco Forte in “L’economia sociale di mercato e i suoi nemici”, Rubbettino).

Oggi dunque Angela Merkel, così come Jean-Claude Juncker, sostengono di aderire proprio ai princìpi dell’economia sociale di mercato nel momento in cui propongono – o secondo alcuni, impongono – la loro linea di politica economica agli altri partner europei. Ma la leadership tedesca è davvero sempre coerente con quanto teorizzato da questa gloriosa scuola di pensatori economici che in Italia affascinò anche Luigi Einaudi? Decisamente no. Per dimostrarlo vorrei citare alcuni scritti di Müller-Armack (1901-1978), professore a Colonia e dirigente del ministero dell’Economia guidato da Erhard, e colui che nel 1946 coniò l’espressione stessa “Soziale Marktwirtschaft”, cioè “economia sociale di mercato”.

Müller-Armack si preoccupò, negli ultimi anni della sua vita, di adeguare le teorie dell’economia sociale di mercato a uno scenario europeo e non solo nazionale. In un suo scritto visionario del 1978, in cui prefigurava il funzionamnento di un’unione monetaria su scala europea, chiedeva di adottare il pareggio di bilancio e una politica di stabilità della moneta, quindi anti-inflazionistica. Esattamente alcuni dei princìpi che oggi animano le critiche dei tedeschi più ortodossi anche a fronte delle politiche espansive ed emergenziali della Banca centrale europea di Mario Draghi. Poi però lo stesso Müller-Armack ragionava sulla necessità di un “coordinamento della politica economica”, auspicando “un ruolo diversamente posizionato da parte dei singoli Paesi. Di modo che questi ultimi, per esempio, amplino le loro importazioni se si trovano in posizione di eccedenza, e all’interno perseguano una politica espansiva per offrire così agli altri paesi, spinti alla contrazione dell’economia, un aiuto di mercato”.

Quindi riequilibrio della bilancia commerciale, espansione della domanda interna attraverso consumi e investimenti. Esattamente quanto oggi gli Stati Uniti, le organizzazioni internazionali e molti economisti chiedono e hanno chiesto a lungo a Berlino. Ma su questo fronte, per ora, non c’è economia sociale di mercato che tenga. Le tesi di Müller-Armack, cioè il padre dell’economia sociale di mercato, a Berlino e a Bruxelles restano per ora totalmente inascoltate.

@marcovaleriolp

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