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È asimmetrica, in tutto e per tutto, l’Europa: verso l’esterno ed all’interno, prima della crisi ed ancor più oggi. Dopo la crisi del 2011, così come accadde con la costruzione dell’Euro, le sue strategie sono state decise a tavolino, regole uguali per tutti, da applicare ad un sistema chiuso in se stesso. Come se alle frontiere ci fosse il vuoto: non solo continuiamo a subire le politiche valutarie altrui, con il dollaro, lo yen e lo yuan che vengono manovrati in funzione degli interessi commerciali degli emittenti, ma ora la crisi ucraina e l’incontrollabile scacchiere arabo rischiano di far deragliare il convoglio dell’Unione, già ai limiti della tenuta per via della frenata rapida decisa con il Fiscal Compact.

L’Italia è ancora in recessione, la Francia si avvia allo stallo, mentre ormai da otto mesi la fiducia degli imprenditori tedeschi va scemando: l’unico vero mercato di sbocco per i prossimi anni, la Russia, rischia di congelarsi per i timori di una nuova Guerra fredda.

L’Europa è così, in tanti si sono assuefatti: nascondiamo la realtà dietro l’ampollosità dei Trattati, la pletoricità delle istituzioni bruxellesi e le tante direttive che creano mercati interni solo in astratto aperti e concorrenziali. Dopo la crisi, la divaricazione tra i diversi Paesi così come continua a mancare una strategia di crescita complessiva e la possibilità delle imprese europee di competere a livello globale, visto che ci sono ancora ben 27 mercati nazionali in cui vigono altrettanti limiti antitrust, dalle compagnie aeree alle telecomunicazioni, dalle banche alle assicurazioni: il solo immaginare come sarebbero potute crescere le imprese americane o cinesi, se solo avessero avuto una disciplina del genere, fa già sorridere. L’Europa è frastagliata, fondata com’è sulla competizione tra aziende condannate al nanismo. All’estero ci si fa concorrenza gli uni con gli altri, poiché ogni Stato ha la sua strategia internazionale: è praticamente impossibile conciliare, ad esempio, le paure ataviche della Polonia nei confronti della Russia, con l’interesse che della Germania a mantenere solidi legami in campo energetico sviluppando quelli industriali, con il desiderio della Gran Bretagna di essere la piazza finanziaria di riferimento per i capitali russi all’estero. Per non parlare poi del Mediterraneo, che è un’area cruciale per l’Italia, la Francia e la Spagna, mentre è del tutto ininfluente per i Paesi nordici. Non avendo più i traffici mercantili con le colonie, anche la Gran Bretagna ha perduto l’interesse al controllo delle rotte marittime, mentre presidia attentamente i canali finanziari con il mondo arabo e ad oriente fino alla Cina.

Le contraddizioni non si fermano qui: in Europa ci si contendono le sedi legali e fiscali delle imprese a colpi di normative di favore, dal Lussemburgo all’Irlanda, dall’Olanda alla Gran Bretagna, è una guazzabuglio che rende possibili le architetture societarie più barocche. Per non parlare del costo del lavoro, che va dai picchi dei manager londinesi ai dirupi salariali dei Paesi ex-comunisti, oppure di quanto accade nei Paesi balcanici: sono destinatari di investimenti finanziati non solo dalla Bei ma anche dagli stessi Stati, pratica che nella Ue è assolutamente vietata, per la realizzazione di impianti produttivi in cui le imprese europee delocalizzano la produzione, sfruttando la ampia disponibilità di forza lavoro a basso costo. E’ un controsenso solo apparente: l’Europa è questa, serve questi interessi economici e finanziari.

Dopo la crisi del 2008 sono esplose le contraddizioni che avevano consentito per anni una crescita asimmetrica dal punto di vista economico e finanziario, con alcuni Paesi europei strutturalmente in attivo commerciale e creditori netti verso l’estero, ed altri costantemente in rosso e sempre più indebitati. Gli squilibri avevano caratteristiche molto diverse: dalle bilance dei pagamenti correnti in passivo alla dipoendenza crescente dal credito estero; da un eccessivo indebitamento dei privati verso le banche alle finanze pubbliche in disordine, per via di un elevato deficit strutturale oppure di un elevato rapporto tra debito e pil. Nonostante questa assoluta disomogeneità, è stata imposta a tutti la stessa politica di rigore, incentrata sul riequilibrio delle finanze pubbliche e sul rafforzamento dei requisiti patrimoniali delle banche e dei parametri di affidabilità per la erogazione del credito.

La strategia della deflazione competitiva, volta ad intervenire sui prezzi relativi, ha avuto lo scopo di ridurli nei Paesi deficitari: così facendo, le importazioni sarebbero divenute meno convenienti, mentre l’export sarebbe stato favorito. Anche l’aumento dell’Iva, che ha reso paradossalmente ancora più disomogenei i trattamenti fiscali dell’unica imposta comunitaria, aveva questo obiettivo. La destrutturazione dei mercati del lavoro, in termini di maggiore flessibilità dei rapporti, minori tutele nei confronti dei licenziamenti e salari più bassi, possibilmente contrattati a livello aziendale, era altrettanto funzionale. La contrazione della domanda interna, da conseguire attraverso l’aumento drastico del prelievo fiscale, aveva la stessa finalità: riequilibrare i conti con l’estero e nel contempo ridurre i disavanzi pubblici.

Così facendo, si è creata una inusitata ed insanabile contraddizione tra gli obiettivi della politica economica e quelli della politica creditizia: mentre la deflazione competitiva ha perseguito con successo l’obiettivo di abbassare i prezzi e di ridurre la dinamica economica, la Bce ha inutilmente mantenuto fermo quello di una crescita dei prezzi vicina al 2%. Non solo, quindi, la deflazione ha reso inefficace la progressiva riduzione dei tassi di riferimento decisa dalla Bce, ma con l’inflazione che tende allo zero e con l’economia in recessione i tassi reali pagati dalle imprese sono aumentati, così come è cresciuto il costo politico e sociale del finanziamento del debito pubblico: una cosa è pagare il 4,5% di interessi nominali con una inflazione vicina al 2% ed una economia che cresce anche stentatamente all’1%, ed altra cosa è pagarli quando i prezzi sono fermi ed il Pil cala.

La situazione dell’Europa è molto più critica oggi rispetto all’estate di tre anni fa, quando i mercati temevano un collasso dell’euro per via dell’accumularsi delle tensioni determinate dalla crisi bancaria spagnola e dal deficit strutturale del bilancio pubblico italiano, accompagnato da un rapporto debito/pil che cresceva senza sosta. La cura che ci è stata somministrata ha peggiorato enormemente la situazione: nel 2011 sembrava insostenibile un rapporto debito/pil al 120%, anche se l’economia comunque cresceva e l’inflazione non destava preoccupazioni; oggi siamo vicini al 135%, con l’economia ancora in recessione e l’inflazione a zero. Tutti zitti, ora, coloro che hanno sostenuto la necessità di manovre sempre più dure, quelli per i quali il rigore non era mai sufficiente. Versano qualche lacrimuccia di troppo, ma non sono mai satolli, i soliti coccodrilli.

Benvenuti nella mortale Babele chiamata Unione monetaria europea

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