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L’intervento fiume di Donald Trump all’Assemblea Generale dell’Onu riflette lo stallo della diplomazia occidentale. Non riguarda solo le relazioni tra Stati, ma lo svuotamento di procedure e pratiche che per decenni avevano reso la diplomazia una dimensione autonoma, distinta dalla politica interna. È un aspetto poco presente nel dibattito pubblico, dove sopravvive una stantia retorica da “ritorno alla diplomazia”, ripetuta come un vuoto mantra.

Siamo di fronte a una crisi strutturale iniziata da tempo (che Trump ha solo accentuato) fatta di molteplici dimensioni che si intrecciano e svuotano la diplomazia della sua funzione originaria.

Crisi dei codici

Tra i segnali del declino della diplomazia vi è il superamento sistematico dei suoi codici espressivi. Un linguaggio diplomatico che per decenni si era nutrito di formule calibrate e di un lessico rituale viene sostituito da toni colloquiali ed espressioni dirette, spesso brutali, pensate per l’impatto mediatico immediato.

Esse vengono incanalate su canali informali extra-diplomatici. Che da eccezionali diventano la norma, come nel caso dei social media. Un singolo post di Trump su Truth Social, forse neppure scritto di suo pugno, ha impatto uguale se non maggiore nei rapporti Usa-Russia di un intero summit in Alaska con Vladimir Putin.

Questo accantonamento della forma diplomatica ha tuttavia devastanti conseguenze sul piano della sostanza politica. In nome della visibilità si perde la distanza simbolica che faceva della diplomazia un linguaggio distinto e autorevole, sacrale, separato dal discorso politico quotidiano.

Ne escono compromessi i fondamenti e le liturgie dell’impalcatura diplomatica — tempi ponderati, dichiarazioni congiunte, protocolli — che garantivano prevedibilità e continuità relazionale, pilastri dell’ordine internazionale. Si naviga a vista e le relazioni tra Stati acquistano volatilità e oscillazioni quotidiane di un mercato azionario. Ottimo per riempire le cronache dei giornali, pessimo per garantire stabilità.

Crisi delle istituzioni

Un’altra erosione riguarda le istituzioni della diplomazia, oramai ridotte ad uffici amministrativi chiamati a gestire più che a orientare il policy making. I dicasteri degli Affari esteri hanno perso centralità politica, soppiantati da leader (capi di governo o di Stato) che di default agiscono in prima persona su ogni questione internazionale di rilievo.

Se nella crisi del linguaggio i social segnalano la perdita di codici e rituali, qui diventano bypass istituzionale: i leader interagiscono tra di loro e parlano direttamente con intere opinioni pubbliche, scavalcando le reti diplomatiche.

Confinate in un ruolo ancillare, queste ultime si occupano sempre più di questioni consolari, mentre è loro preclusa la funzione classica di mantenere i rapporti bilaterali, soprattutto nei momenti di crisi. Non ha senso recriminare di non essere invitati ai tavoli negoziali se, ieri, si sono fatti saltare i ponti con chi oggi si vorrebbe trattare.

Il rapporto diplomatico è una virtù, non una debolezza – tanto più quando la relazione è tesa. Vietarlo significa produrre conseguenze catastrofiche, visibili già nel breve periodo. È quanto accade all’Europa, che mantiene formalmente le ambasciate aperte ma vieta ai propri diplomatici di avere rapporti con i loro omologhi russi. Una decisione che ha facilitato l’esclusione europea dai negoziati sul conflitto in Ucraina, segno di evidente irrilevanza politica.

Crisi della politica estera

La marginalizzazione dei codici e delle istituzioni della diplomazia impoverisce la politica estera come funzione di governo. Si crea un cortocircuito: si dà credito a narrative nate per compattare l’opinione pubblica e semplificare messaggi, non per orientare l’azione internazionale.

Dominate da logiche di comunicazione immediata, queste narrative servono a creare consenso interno e ricorrono a due meccanismi ricorrenti. La moralizzazione, che riduce gli scenari globali a uno schema binario di buoni e cattivi. E la personalizzazione, che legge gli Stati come individui incarnati nei loro leader, trattati come soggetti mossi da passioni umane.

In periodi di crisi acuta, come una guerra, la narrativa — un tempo chiamata propaganda — è comprensibile e da molti ritenuta necessaria. Il problema nasce quando, a forza di ripeterle, chi le costruisce finisce col credervi e le usa come base dell’azione di governo. Quando la narrativa-propaganda da strumento diventa agenda.

Il rischio è di avere una politica estera ridotta a racconto interno, non a valutazione esterna fondata sulla realtà. Si creano cortocircuiti come quello dei Paesi Volenterosi, che non solo descrivono la Russia al tempo stesso come uno Stato allo sbando e come una potenza pronta a invadere l’Europa, ma la trattano come se entrambe le letture fossero vere.

Altoforno spento

Alla luce di questa crisi strutturale, gli appelli al “ritorno alla diplomazia” suonano come un esercizio retorico fine a se stesso. Per metterla in pratica servirebbe ricostruire reti di relazioni diplomatiche sedimentate per decenni e oggi smantellate con frettolosa incoscienza.

È un processo tutt’altro che facile o veloce, che richiede tempo, attori, capacità e volontà che non si vedono all’orizzonte.

La diplomazia è come un altoforno. Una volta spenta, non si riaccende con un interruttore (e non basterà un piano di riarmo militare per colmarne il vuoto).

Se la crisi della diplomazia è strutturale. La versione di Pellicciari

L’intervento di Trump all’Onu riflette la crisi strutturale della diplomazia: codici formali sostituiti da linguaggi diretti e social, istituzioni ridotte a burocrazie marginali e politica estera piegata a narrative interne. Così la diplomazia perde autonomia e continuità, riducendosi a retorica vuota e incapace di garantire stabilità. L’analisi di Igor Pellicciari

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