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“The lady’s not for turning”. È il 1980 e Margaret Thatcher scolpisce in una frase il mito della sua leadership: inflessibile, impermeabile alle pressioni, capace di incarnare la fermezza come cifra politica. Quarantadue anni dopo, Giorgia Meloni sale a Palazzo Chigi e sceglie una triade identitaria per presentarsi al mondo: “donna, madre, cristiana”. Due prime volte, due contesti di crisi, due modi diversi di piegare il genere a strumento di potere.

Quando Thatcher diventa premier, nel 1979, la sua vittoria rompe un tabù. Nessuna donna aveva mai guidato un grande Paese europeo, e la sua ascesa avviene in un Partito conservatore dominato da uomini e rituali elitari. La figlia di un droghiere arriva al numero 10 di Downing street e inaugura una stagione destinata a segnare non solo la Gran Bretagna ma l’intero conservatorismo occidentale. Sovranità nazionale, libero mercato, rigore sociale: il suo programma diventa dottrina, imitato e contestato ma impossibile da ignorare. La Lady di ferro non vince in quanto donna, ma in quanto più forte degli uomini che la circondano. Il caso di Meloni segue una traiettoria diversa. Nel 2022 diventa la prima donna presidente del Consiglio in Italia, Paese in cui la rappresentanza femminile resta minoritaria a livello locale e nazionale. La sua ascesa avviene da outsider: in una destra post-missina senza padrini né dinastie costruisce la propria legittimità passo dopo passo. Ma qui il genere non è nascosto, è rivendicato.

Meloni si presenta come madre, sorella, cristiana: un’identità che rassicura un elettorato conservatore, rendendo accettabile una leadership di rottura. La sua cifra non è l’autorità impersonale, ma la narrazione personale: una dimensione empatica che passa anche dai social, dai video quotidiani e dalle immagini familiari. Dove Thatcher alzava muri, Meloni tende corde narrative. Le campagne del 1979 e del 2022 mostrano bene come la guida di Thatcher e Meloni si sia plasmata già nel momento della conquista del potere. Thatcher lavorò sulla voce: esercizi quotidiani per abbassare il timbro e renderlo più grave, segno di autorevolezza in un’epoca in cui una voce acuta rischiava di essere letta come fragilità.

Visitava fabbriche e mercati, costruendo immagini di prossimità popolare mentre prometteva disciplina e rigore dopo gli anni degli scioperi. Meloni, invece, ha scelto la strada opposta: la voce alta e l’inflessione romanesca la rendono riconoscibile, e il tono vicino al comizio parla di una storia politica che inizia nelle sezioni di quartiere. Ma soprattutto, nel 2022 assume una postura già da presidente in pectore: la campagna elettorale non è stata quella della leader di un partito, ma della futura premier che parla al Paese come se la vittoria fosse inevitabile. Anche nella scelta dei set si coglie la differenza: Thatcher coltiva la distanza dello statista televisivo, Meloni riduce la distanza con dirette social, ironia e immagini di vita quotidiana. Il confronto dice molto della trasformazione del conservatorismo. Thatcher traduce la crisi britannica in un programma di disciplina collettiva e competizione globale, sotto il segno del mercato e dello Stato forte. Meloni traduce l’incertezza italiana ed europea in un conservatorismo identitario, che fa della stabilità la parola-chiave collocata saldamente nel quadro euroatlantico, ma con un racconto di prossimità e appartenenza. Se la prima imponeva un modello verticale, la seconda naviga in un ecosistema frammentato, dove la disintermediazione digitale è parte integrante della leadership.

In comune, al di là delle differenze di epoca e di stile, c’è la retorica della necessità. Thatcher ripeteva “There is no alternative” per dire che non ci sono strade diverse dalle sue riforme, l’unica via possibile. Meloni chiede fiducia come garanzia di stabilità, punta sulla crescita e lavora sul riconoscimento internazionale come chiave di serietà e credibilità. Due leader donne che hanno reso inevitabile la propria guida, trasformando l’eccezione femminile in simbolo di una transizione politica più ampia. I numeri, infatti, raccontano che si tratta ancora di eccezioni. Nel Parlamento britannico del 1979 le donne erano appena il 3% degli eletti, contro circa il 40% di oggi. In Italia, alla vigilia del governo Meloni, la percentuale femminile in Parlamento era poco sopra il 30%, e a livello locale la quota scendeva drasticamente: appena il 15% dei sindaci è donna, l’8% nei capoluoghi.

Le prime volte aprono simbolicamente la strada, ma non bastano a cambiare le statistiche. La Gran Bretagna non divenne improvvisamente paritaria dopo Thatcher, e l’Italia non lo è oggi “nonostante” Meloni. L’effetto sistemico delle leadership femminili è più lento, fatto di finestre di possibilità e di aspettative che devono trasformarsi in regole, pipeline, selezione. Restano figure eccezionali in contesti ancora segnati dalla sotto-rappresentanza. Proprio questa tensione tra eccezione e normalizzazione è ciò che accomuna le due esperienze. La prima ha reinventato il conservatorismo negli anni Ottanta. La seconda lo sta reinventando oggi. Due parabole diverse, ma una stessa lezione: quando una donna arriva al vertice, la sua figura non è mai solo personale. È lo specchio di un’intera stagione politica.

 

 

Thatcher-Meloni, due parabole diverse ma una stessa lezione. Ecco quale secondo Carone

In comune, al di là delle differenze di epoca e di stile, c’è la retorica della necessità. Thatcher ripeteva “There is no alternative” per dire che non ci sono strade diverse dalle sue riforme. Meloni chiede fiducia come garanzia di stabilità, punta sulla crescita e lavora sul riconoscimento internazionale. Due leader donne che hanno reso inevitabile la propria guida. L’analisi di Martina Carone, direttrice della comunicazione di Youtrend strategies e docente di Analisi dei media presso l’Università di Padova, pubblicata nell’ultimo numero della rivista Formiche, in occasione dei 100 anni dalla nascita della lady di ferro

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