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Sarà veramente “un giorno speciale” per le sorti della guerra a Gaza, come dichiarato in modo trionfale da Donald Trump nella giornata di venerdì 3 ottobre? Effettivamente, lo sviluppo della situazione nelle ultime ore lascia propendere per un cauto ottimismo, quantomeno per l’implementazione della prima parte dell’accordo tra Israele e Hamas. Del resto, l’avvicinamento tra le due parti in causa sembra aprire una finestra di opportunità forse irripetibile, dentro la quale il Presidente statunitense si è lanciato a capofitto. Trump sta evidentemente cercando di forzare i tempi, non solo per spirito umanitario (anche se forse il tanto agognato Nobel per la Pace potrebbe davvero essere suo, se il negoziato dovesse andare in porto, emulando finalmente così il suo contestato rivale politico, Barack Obama) quanto per motivi dettati dall’agenda politica della Casa Bianca.

Innanzitutto, Trump vuole mantenere la promessa di applicare la prima fase dell’accordo entro 72 ore per una questione di reputazione personale: dopo il sostanziale naufragio delle trattative tra Russia e Ucraina, che il Presidente aveva cercato di facilitare organizzando il summit in Alaska con Vladimir Putin, il tycoon non può permettersi di fallire anche sulla questione palestinese ed è dunque costretto ad imprimere un’accelerata, correndo il rischio di forzare la mano. Ma le motivazioni sono anche interne: l’amministrazione repubblicana ha bisogno di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni, come lo shutdown, e di contenere l’opposizione Democratica che si sta facendo più agguerrita, sia in Congresso che a livello degli Stati federali attraverso figure influenti come il governatore della California Gavin Newsom.

Si sta dunque profilando una triangolazione diplomatica fra Stati Uniti, Israele e Paesi arabi che sta cercando di mettere in piedi una dinamica efficace, sfruttando una convergenza di interessi. Gli Usa sostengono Netanyahu nel perseguire un accordo che potrebbe salvarlo politicamente, avvicinandolo ai partiti israeliani più moderati e consentendogli di liberarsi della destra fondamentalista che vorrebbe invece l’annientamento totale dell’intera Palestina. Dall’altro lato, si somma la pressione su Hamas compiuta dai Paesi arabi, a cominciare da Doha che ha bisogno di riconquistare la propria influenza nella regione mediorientale dopo che era stata danneggiata dal raid aereo subito da Israele alcune settimane fa. Per ragioni diverse sta spingendo anche l’Arabia Saudita, che ha l’interesse di avere un ruolo fondamentale nella ricostruzione economica di Gaza, preservando l’autonomia palestinese ma perseguendo al contempo anche una ripresa negoziale del processo che aveva portato alla sottoscrizione degli accordi di Abramo per una normalizzazione duratura dei rapporti con Israele.

Insomma, nelle prossime ore vedremo se la situazione si sbloccherà in maniera concreta portando ad un vero passo in avanti della situazione. Le precondizioni perché ciò accada si potrebbero effettivamente materializzare. Da una parte, Netanyahu ha già ordinato all’Idf di sospendere ogni azione militare offensiva facendo un gesto che potrebbe essere il preludio per un cessate il fuoco. Dall’altra, Hamas ha mostrato aperture per il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani rimanenti. Nella sostanza, sono due “sì” alle trattative pronunciati con riserva, da sciogliere solo facendo dei passi in avanti reciproci favoriti dalla mediazione degli attori esterni, Usa e Paesi arabi. È ancora molto presto per dire se si arriverà alla pace e alla fine del conflitto di Gaza; eventuali fasi successive richiederanno un negoziato molto complesso e approfondito. Per il momento, speriamo solo che si possa compiere il primo passo e porre fine al dramma umanitario che sta colpendo da quasi due anni la popolazione palestinese di Gaza. La pressione della opinione pubblica e dei movimenti pro Palestina forse sta raggiungendo gli obiettivi auspicati!

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