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C’è un’Italia che chiede voce, e un’altra che agisce nel silenzio. La prima è quella dei milioni di cittadini che non votano più, stanchi di partiti incapaci di rappresentarli. La seconda è quella dei palazzi, dove sembra stia prendendo forma sottobanco l’ennesima riforma elettorale.

Proporzionale, ma con premio di maggioranza. Preferenze, ma per il capolista. Indicazione del premier, ma blindata nella lista della coalizione.

Il tutto sotto l’etichetta magica della “governabilità”. Una parola che, usata così, rischia di essere il paravento per l’ennesima sottrazione di potere agli elettori. Si discute di tutto, furoché della scelta diretta del proprio rappresentante in Parlamento.

Il cuore della questione non è tecnico, è politico. Non si tratta di inventare nuove formule, ma di restituire ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti, di partecipare. Finché questo nodo non sarà sciolto, parlare di governabilità è un esercizio sterile.

Senza partecipazione, i partiti resteranno gusci vuoti, incapaci di rinnovarsi, destinati a inseguire populismi accesi da problemi irrisolti e manovre straniere che puntano a fare dell’Italia l’anello debole d’Europa.

Non si può ignorare che l’instabilità nasce soprattutto dalla natura delle coalizioni del bipolarismo italiano e dal depotenziamento dei cittadini di scegliere. A destra e a sinistra, i moderati sono ridotti al lumicino, mentre populisti ed estremisti, nel rumore, dettano la linea.

Gli elettori lo vedono e reagiscono con l’astensione. E hanno ragione: perché dovrebbero legittimare alleanze costruite sul compromesso al ribasso, dove i programmi non servono a governare. Questa non è politica: è sopravvivenza. E la sopravvivenza, si sa, paralizza le istituzioni.

Il mondo è in subbuglio: guerre, crisi economiche, sfide energetiche. L’Europa stessa è fragile. L’Italia non può permettersi di giocare a dadi con il proprio futuro. Serve coraggio, serve trasparenza.

Una riforma elettorale degna di questo nome dovrebbe ricostruire il legame tra rappresentanti e rappresentati, costringere i partiti a selezionare la propria classe dirigente nella competizione vera, rilanciare alleanze tra forze che abbiano obiettivi realmente comuni.

Eccoli: creare ricchezza prima di promettere di distribuirla in debito. Valorizzare produttività, merito e risparmio per ridare forza al ceto medio. Tagliare e ridefinire istituzioni gonfie e costose, alleggerendo il fisco e rendendo la macchina amministrativa finalmente efficiente.

Collocare l’Italia con chiarezza accanto ai paesi liberi, nell’Occidente che difende la propria civiltà. Sarebbe un grande ed incoraggiante cambiamento se con coraggio si costituisse una coalizione, la più omogenea possibile, con questi programmi essenziali ma fortemente necessarie per le nostre esigenze culturali di civiltà, economiche, sociali. In Italia una coalizione con soggetti davvero compatibili tra loro sarebbe una rivoluzione.

E oggi scomporre le alleanze attuali e mettere insieme quelle con medesime intenzioni è la scelta più saggia ed opportuna per l’interesse del Paese. I populisti starebbero bene con i populisti, euroscettici con i propri simili, così come i sostenitori palesi ed occulti di Putin.

E invece i riformisti, i popolari, i moderati dovrebbero istituire l’altro fronte. Se ne avvantaggerebbe la governabilità del paese, per gli elettori sarebbe più agevole scegliere e ritornare a votare, per le relazioni europee ed internazionali il modo migliore per capire l’Italia.

Come va costruita la riforma elettorale che serve (davvero) al Paese. Scrive Bonanni

Una riforma elettorale degna di questo nome dovrebbe ricostruire il legame tra rappresentanti e rappresentati, costringere i partiti a selezionare la propria classe dirigente nella competizione vera, rilanciare alleanze tra forze che abbiano obiettivi realmente comuni. L’opinione di Raffaele Bonanni

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