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Basterà a Matteo Renzi attingere a un ambizioso bagaglio di riforme liberali storicamente mancate dal centro-destra per vincere nei prossimi mille giorni la sfida contro poteri conservatori e privilegi corporativi nel mondo istituzionale, nella pubblica amministrazione, nel pianeta giustizia, nel mercato del lavoro?

Formiche.net lo ha chiesto a Vincenzo Scotti, rappresentante di spicco della Democrazia cristiana con cui è stato a lungo parlamentare e ministro fino alla svolta dei primi anni Novanta. Attualmente presidente della Link Campus University di Roma, l’ex capo del Viminale e della Farnesina dipinge uno scenario di luci e ombre per l’iniziativa del premier. E prospetta un parallelo ricco di suggestione.

Nutre fiducia nella capacità innovatrice del governo Renzi?

Le istituzioni italiane finora non hanno avuto il coraggio di cambiare e non hanno risolto alla radice nodi irrisolti da almeno 30 anni, in tutti i gangli vitali della nostra società. Una forza riformatrice rivelata al contrario da Papa Francesco, fermamente intenzionato a riportare la Chiesa cattolica al messaggio evangelico. L’ex primo cittadino di Firenze, che per la sua voglia di “Rottamazione” mi ricorda le “picconate” inferte da Francesco Cossiga al sistema della prima Repubblica, è chiamato ad affrontare un problema preliminare.

Quale?

Riuscire a costruire istituzioni in grado di liberare l’Italia da incrostazioni corporative e da una selva inestricabile di livelli di governo che moltiplicano veti, autorizzazioni, poteri burocratici. Terreno su cui il centro-destra di Silvio Berlusconi ha clamorosamente fallito perdendo tutte le occasioni storiche di mutamento.

La persuade il calendario di interventi preannunciato dal premier?

Mi attengo ai provvedimenti già realizzati. E chiedo se creare un Senato delle autonomie locali non rischi di minare l’unità nazionale e il rapporto costruttivo tra Stato ed enti territoriali. Tanto più in uno scenario di frammentazione della rappresentanza degli interessi. Confindustria e organizzazioni sindacali oggi non interpretano più il protagonismo di una classe economico-sociale.

Come giudica, da ex responsabile dell’interno, il programma Frontex plus concordato dal governo con le autorità europee?

Frontex Plus costituisce un frammento appena abbozzato di un ragionamento condiviso a livello comunitario sul fenomeno epocale dei flussi migratori. Ma è privo di una strategia di ampio respiro. Non si tratta di affrontare il contenimento degli sbarchi di persone che fuggono per svariate ragioni e presentano origini culturali e religiose eterogenee. Anziché giocare a chi resta con il cerino in mano, l’Ue deve comprendere che il Mar Mediterraneo può rappresentare la leva per una politica di riscatto economico-sociale.

Nel 1991 lei era alla guida del Viminale quando un’ondata di profughi provenienti dall’Albania liberata dal giogo comunista sbarcò sulle coste italiane.

Sì. Mi resi conto che sarebbero trascorsi decenni prima che l’Unione Europea capisse la portata del fenomeno. A quel punto promuovemmo l’operazione “Pellicano”. Riportando in patria i migranti, realizzando un’iniziativa di assistenza diretta in Albania, spingendo gli imprenditori italiani a investire nel paese balcanico.

È convincente la strategia messa in campo dalle democrazie occidentali rispetto all’offensiva integralista islamica in Medio Oriente e Nord Africa?

Ritengo giusto costruire una coalizione ampia coinvolgendo i paesi arabi moderati. Ma è un grave errore di miopia politica aver isolato la Russia e l’Iran. Partner fondamentali per la stabilizzazione dell’intera area contro l’aggressione terroristica di marca sunnita.

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