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Questo commento è stato pubblicato sulla Gazzetta di Parma

E così la riforma costituzionale, pur in ritardo rispetto ai tempi proclamati, comincia a vestire il suo già consumato abito regionalista. Grazie al sarto e scaltro Roberto Calderoli, stilista della Lega che riuscì nell’impresa di confessare e sconfessare il suo capolavoro della legge elettorale (“è una porcata”, disse il Maestro della propria e vecchia creazione), il nuovo provvedimento che doveva ridare allo Stato il senso dello Stato, ha rispolverato l’autonomismo. E non a beneficio dei sindaci e dell’Italia delle cento città, che è la tradizione più antica e unitaria delle istituzioni, ma di futuri consiglieri regionali e senatoriali riproposti in barba ai pessimi risultati prodotti dai loro ventidue Consigli. Per non dire del ripristino dell’immunità parlamentare, l’ultimo, sconcertante e anonimo rattoppo della confezione infilato non si capisce da chi (ma forse si può immaginarlo).

E poi quante altre cose in arrivo per il governo. La guida del semestre europeo da luglio. Il dialogo aperto a sorpresa con l’irriducibile Beppe Grillo. Le misure sul lavoro e sul fisco. Vasto programma, dunque.
Eppure, la fortuna dell’esecutivo-Renzi non è legata solo ai risultati economici e legislativi di queste ore, ma anche all’esito di una partita più insidiosa: il dentro o fuori di domani al Mondiale con l’Uruguay.

Da quel giovane e sveglio presidente del Consiglio che è, Matteo Renzi farebbe bene a incrociare le dita sia per la formazione dei testi all’esame del Parlamento, sia per la formazione che Cesare Prandelli schiererà all’esame di calcio a Natal, l’arena brasiliana del verdetto che non perdona. Per la navigazione del governo, Balotelli e Pirlo potrebbero rivelarsi “alleati” più preziosi di Berlusconi e Alfano. Il certo Buffon carta più importante dell’incerto Grillo. Le possibili novità di De Sciglio e di Verratti più opportune dei rammendi federalisti di Calderoli.

Ma è giusto che la fiducia della nazione sia associata così intimamente alle speranze della Nazionale? E’ inevitabile. Accadde ai tempi di Sandro Pertini, l’esultante presidente della Repubblica nella finale vittoriosa del 1982 a Madrid. Accadde a Berlino nel 2006 con i festanti Giorgio Napolitano e Romano Prodi per il sogno coronato. Accadrà anche stavolta, perché Prandelli è il Renzi del nostro calcio. O Renzi il Prandelli del governo: vale pure il contrario.

Tra quei due c’è amicizia fondata sulla Fiorentina, la squadra del tifoso Matteo che Prandelli allenò. C’è sintonia nel voler investire sui giovani, nel lavorare (e “annunciare”) con sommo piacere. Pur in ambiti differenti e non mescolabili, Prandelli e Renzi sono figli di un’Italia che vuole cambiare. Di un tempo in cui non basta più partecipare: bisogna saper vincere. L’epoca politica e calcistica del “vorrei, ma non posso” è finita. Oggi l’onere e l’onore di guidare l’Italia a Roma come a Natal, città già impazzita per gli Azzurri, non contemplano prove d’appello. Niente è più serio di un gioco che incolla l’intera nazione davanti agli undici della Nazionale in tv. Renzi e Prandelli, Politica e Pallone, che destino diverso, ma comune: più che le riforme, l’obbligo di fare gol.

Renzi, Prandelli e l'obbligo di fare gol

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