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Indubbiamente il rilascio dei 49 diplomatici turchi, presi in ostaggio per 101 giorni dagli uomini dello Stato Islamico a Mosul, è stato un gran sospiro di sollievo per Ankara. La Turchia, benché spesso abbia chiuso gli occhi sul passaggio dei jihadisti attraverso il proprio territorio, temeva che uno dei dipendenti del consolato iracheno, finisse protagonista di un video d’esecuzione del Califfato – quelli ormai diventati un’etichetta di questa nuova guerra. Sarebbe stato un caso politico non da poco: magari era proprio il console Ozturk Yilmaz a rischiare di essere giustiziato, con il presidente Erdogan e il governo sua emulazione, messi sulla brace per non aver fatto abbastanza – anche a livello mediatico, dove più che black out per motivi di sicurezza, si è taciuto per ragioni di propaganda, come dire “meglio di non parlare di quello che non va nel paese”.

Mani legate nel non unirsi alla coalizione, per queste ragioni: era questo il motivo, ufficioso, per cui la Turchia era rimasta in disparte – rifiutandosi di fornire anche le basi per il supporto logistico. Anche se, secondo quanto riportato mercoledì da fonti curde che stanno combattendo al confine siriano, ci sarebbero stati dei raid aerei nell’area di Kobane – dove l’IS sta assediando la città e dove le forze dell’YPG sono allo stremo – con velivoli provenienti dai cieli turchi. Sulla vicenda non ci sono stati ancora chiarimenti.

Dove sta esattamente la Turchia nella risposta al Califfo? Tre sono i principali temi di critica che piovono su Ankara dall’Occidente. 1) Non ha fatto abbastanza per chiudere le porose e lunghe (750 miglia) linee di frontiera, favorendo il transito di combattenti da molte zone del mondo e arricchendo di fatto anche le formazioni ribelli più estremiste. 2) Ha concesso troppo spazio a cellule di reclutamento instaurate all’interno dei propri territori, e si parla dei campi profughi, così come dei quartieri periferici di Istanbul; aree dove i servizi di sicurezza, se avessero voluto, avrebbero potuto intervenire. 3) Il traffico di petrolio, venduto irregolarmente nei porti turchi e proveniente dai pozzi dello Stato Islamico.

Fatta salva la certezza nei primi due, il terzo punto, è di certo il più dibattuto in questo momento, finito ultimamente al centro di articoli/inchiesta di New York Times, Bloomberg Businessweek e al-Monitor: anche perché oltre al numero di uomini e al flusso di combattenti, un aspetto cruciale dell’IS è la potenza economica. Circostanza che permette al Califfo approvvigionamenti di armi, mantenimento della struttura assistenziale nelle aree controllate, pagamento degli stipendi ai combattenti. Tutti valori in più, che lo Stato Islamico può vantare rispetto agli altri gruppi jihadisti – e che ne hanno permesso il grosso sviluppo.

La vendita di petrolio, rappresenta un’importante percentuale di entrate nelle casse del Califfato.

A discapito di Ankara, c’è da dire che i commerci avvengono in contrabbando – ovvio che sia così, anche perché un paese di diritto, membro Nato e via dicendo, non avrebbe potuto ufficialmente mantenere rapporti commerciali con un’entità illegittima, dichiarata terroristica da gran parte del mondo.

Il traffico di contrabbando di petrolio iracheno e siriano attraverso la Turchia è sempre esistito, attraverso rotte sud-nord illegali quanto diffuse – rotte che spesso comprendono anche altri prodotti, tra i primi il té.

Il contrabbando è stato per decenni tollerato dai governi turchi per una semplice ragione. La guerra con il curdi del Pkk, che dura da oltre 30 anni, ha impoverito notevolmente le regioni sud-orientali della Turchia – mettendo in crisi settori base come agricoltura e allevamento. Per queste popolazioni il contrabbando è stato una delle uniche fonti di reddito: il governo chiudeva un occhio, in cambio della fedeltà degli abitanti delle città di quelle aree – continuamente nel mezzo della retorica “pro-Stato” e/o delle “proposte” politiche che arrivavano dalle istanze curde.

Ora è indubbio che il governo turco debba intervenire – anche perché è costretto dal pressing della comunità internazionale. Dietro quei traffici c’è una realtà ostile, radicale, pronta a fare la guerra tanto nella regione quanto a livello globale.

Ma il problema è più complicato di quanto sembri: non si tratta semplicemente di chiudere un rubinetto, bensì sullo sfondo ballano gli equilibri dell’economia locale di quell’area di Turchia – alcuni contrabbandieri, hanno per altro ammesso che il petrolio passa di mano talmente rapidamente, che non sanno nemmeno loro se lo stanno acquistando dallo Stato Islamico; questo per spiegare quanto è radicato e articolato un certo genere di commercio.

Ciò non toglie sicuramente Ankara dalle responsabilità sullo scarso controllo generale dei traffici – che siano di uomini/combattenti o di materiali – che hanno interessato nel corso dei mesi il proprio territorio a totale vantaggio dello Stato Islamico.

Secondo stime di fonti americane riportate dal Nytimes, il valore dei traffici sarebbe arrivato a toccare cifre intorno ai 2 milioni di dollari al giorno. Soldi che entrano nelle casse del Califfo, a rimpinguare continuamente un capitale ormai stimato intorno ai due miliardi.

Anche per questo la coalizione si è concentrata su tali obiettivi. Nel centro del mirino dei raid aerei compiuti nella notte tra mercoledì e giovedì, sono infatti finiti diversi impianti petroliferi conquistati dal Califfo nell’area di Raqqa durante l’offensiva di questa estate. Ora è presumibile che i prossimi attacchi coinvolgano anche la rete logistica del contrabbando. Il petrolio viene trasportato in diversi modi: dai muli, alle zattere di barili (come quelle in foto), fino alle più comuni autobotti, che arrivano fino alle città del confine turco, da cui l’oro nero prende la via finale attraverso pipeline improvvisate. Ma lì, è inutile dire, sarà il governo di Ankara a doverci mettere le mani – se vorrà.

@danemblog

Gli attacchi al petrolio del Califfo, e della Turchia

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