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“Non sappiamo che frutti porterà la preghiera di ieri sera a Roma, non sappiamo se l’ulivo piantato crescerà fino a portare frutto e a donare luce e balsamo a chi vi anela. Sappiamo però, come ha ricordato ieri papa Francesco, che la parola che ci fa incontrare è ‘fratello’, che lo stile della nostra vita deve diventare ‘pace’ e che a questa pace è la preghiera che ci conduce. Sì, anche quando le apparenze paiono affermare il contrario, la preghiera salverà il mondo”. E’ questo il commento che Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, mette nero su bianco in un articolo pubblicato oggi su Repubblica.

UN GESTO “NUOVO E INEDITO”

Il seme verso la pace è piantato, ma nessuno è in grado di dire se – e tra quanto tempo – maturerà. A ogni modo, di evento storico si è trattato. In un’analisi apparsa sulla Stampa, Andrea Tornielli parla di “gesto nuovo e inedito”. Il primo paragone è quello con l’incontro successivo all’11 settembre del 2001, quando Giovanni Paolo II invitò ad Assisi gli esponenti delle varie confessioni religiose. Ma in quella circostanza, nota Tornielli, “non aveva portato a pregare nello stesso luogo chi si combatte”. E in ogni caso, “più che le parole, comunque significative, a colpire della cerimonia nel giardino triangolare con il Cupolone che si stagliava sullo sfondo, sono stati i silenzi, la partecipazione, le immagini”.

I PROBLEMI DELLA “STERMINATA ICONOGRAFIA CATTOLICA”

Si sofferma sulla location scelta, invece, Luigi Accattoli: “Sessanta persone su un prato e tra due alte siepi, a cantare salmi e sue nel verde: è questa, forse, l’immagine più viva della preghiera di ieri. Non è solo per godere del fresco della sera che è stato scelto quel luogo, ma per non incappare in simboli che potevano contristare gli ospiti”. Sia gli ebrei sia i musulmani – osserva ancora Accattoli sul Corriere della Sera – “sono infatti refrattari alle immagini, e due volte suscettibili nei confronti della sterminata iconografia cattolica”. Pregare in “unità di luogo” – prosegue Accattoli – “pare ancora un’impresa impossibile per i figli di Abramo in Medio Oriente. Il sogno wojtyliano fu cassato dai veti incrociati: risultò impossibile che gente proveniente da Israele potesse salire sul Sinai. Non abbiamo fatto molta strada da allora e neanche Francesco è riuscito a programmare un incontro delle tre fedi nei giorni della visita in Terra Santa del 24-26 maggio”.

“IO PREGO A CASA MIA, TU A CASA TUA”

“Dopo mesi di trattative risultò che la regola delle regole nella terra che è detta santa è quella di sempre: io non prego a casa tua, tu non preghi a casa mia”. Un sogno, quello di Wojtyla, che invece per il vaticanista del Fatto, Marco Politi, è diventato realtà: “Papa Francesco ha realizzato il sogno, portando ebrei, cristiani e musulmani a pregare per la pace in Terrasanta nei giardini del Vaticano”. Politi sottolinea come “più netta e specifica” sia stata “l’autocritica di parte cristiana, fatta utilizzando il mea culpa di Giovanni Paolo II per il Giubileo: il pentimento per ogni volta in cui i cristiani hanno ‘causato guerre, fomentato violenza, insegnato il disprezzo verso i nostri fratelli e sorelle'”.

La preghiera storica di Papa Francesco vista dalla stampa italiana

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