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Con l’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi del magistrato Domenico Cacopardo, apparsa sul quotidiano Italia Oggi.

Non stropicciatevi gli occhi, la riforma dell’Amministrazione (art. 17, comma 4) stabilisce proprio così: «A decorrere dal 1 gennaio 2015, il Ministero dell’economia e della finanze acquisisce le informazioni relative alle partecipazioni in società ed enti di diritto pubblico e di diritto privato detenute direttamente o indirettamente dalle amministrazioni pubbliche individuate dall’istituto nazionale di statistica».

La frase è stata di sicuro scritta da un marziano arrivato da poco sulla Terra, privo delle più elementari nozioni di diritto e di diritto amministrativo in particolare. Non è immaginabile che un consesso composto da persone in possesso di tutte le capacità mentali, presieduto (il senato) da un ex-magistrato, possa approvare una norma simile.

Per realizzare questo censimento, sarebbe bastata una decisione amministrativa della presidenza del consiglio dei ministri, presso la quale sono incardinati il dipartimento per gli affari regionali (e la Conferenza Stato-regioni) e il dipartimento della funzione pubblica, mentre presso il ministero dell’interno c’è la vigilanza sugli enti locali. Sarebbe bastato coinvolgere i prefetti che ancora presiedono all’Amministrazione statale in tutte le provincie. Invece no. Una legge. Forse perché si teme che il censimento fallisca per il boicottaggio dei censiti? Se così fosse, ci vorrebbe una speciale sanzione per coloro che non collaborano. Non c’è.

Vuol dire che la ragione di questo testo paradossale è una sola: l’ignoranza totale sulla struttura tecnico-giuridica dello Stato, del governo e delle sue organizzazioni territoriali. L’art. 17 bis è la ciliegina sotto spirito che ci vuole per digerire la stupidità precedente: «Le amministrazioni non possono richiedere ai cittadini informazioni e dati già presenti nell’anagrafe nazionale della popolazione residente». La questione venne affrontata e risolta (in parte) con la legge 4 gennaio 1968 (proprio il 1968, non è un refuso), n. 15. Nel 1997 è stato ampliato l’ambito della circolazione interna delle informazioni relative ai cittadini.

È vero che in alcune zone del paese (da Napoli in giù con sublimazione siciliana) queste norme hanno avuto difficoltà ad attecchire e per un semplice motivo: l’utilità politica e anche finanziaria (per la mance che provoca) di mantenere il potere di certificazione nei confronti dei cittadini. Ma ripestare l’acqua nel mortaio non aiuta a ottenere la generale applicazione della legge. Se questo fosse il problema, basterebbe introdurre una severa sanzione per tutti i pubblici ufficiali che si rifiutano di riconoscere le autocertificazioni, che rilasciano certificazioni sostituibili e che non permettono la circolazione delle informazioni.

L’art. 18, oltre alla fittizia abolizione del Magistrato alle acque, dispone l’abolizione delle sedi distaccate dei Tar in tutte le città che non sono sede di Corte d’appello. E ciò in attesa della rideterminazione dell’assetto organizzativo di tutti i Tar: per un governo che fa della velocità la sua principale carta riformista, questo (come gli altri) rinvio è una plateale confessione di incapacità legislativa, sancita per legge.

Si arriva anche, nel comma 1 bis, a stabilire che entro il 31 dicembre 2014, il governo presenterà al Parlamento un rapporto completo sulla situazione dei Tar. Sarebbe bastato un semplice ordine del giorno, accolto dal governo a definire un impegno di questo genere.

L’art. 19 abolisce, infine, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, dal bilancio fallimentare, e ne trasferisce i compiti all’Autorità nazionale anticorruzione, il cui futuro andrebbe meglio definito per evitare ch’esso sia risucchiato nella deriva paragiudiziaria di cui si coglie qualche inquietante segnale. In materia di appalti e forniture pubbliche, l’anticorruzione deve impedire deroghe e interpretazioni truffaldine delle norme europee, e imporre una trasparente libera concorrenza. Non altro, giacché il resto discenderebbe come conseguenza obbligata.

L’esame puntuale di questa legge che, impropriamente, viene chiamata riforma della pubblica Amministrazione, conferma, purtroppo, tutte le perplessità che le nomine di Marianna Madia alla testa del ministero della funzione pubblica e di Antonella Manzione, ex comandante dei vigili urbani di Firenze, alla testa del dipartimento affari legislativi della presidenza del consiglio, avevano suscitato. La produzione normativa ne è prova inequivocabile.

Vi racconto un paio di penose chicche della riforma Madia

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