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Prefazione del libro “L’allegro naufragio – La scomposizione del centrodestra e la crisi del bipolarismo” (Minerva edizioni) di Gennaro Malgieri

Quando ho cominciato a mettere ordine nelle note che per cinque anni ho scritto cercando di documentare in maniera analitica il percorso del “partito unico del centrodestra”, mi sono reso conto che quella esperienza è andata sfilacciandosi per insipienza, con l’allegra irresponsabilità di chi avrebbe dovuto invece con rigore portarla a compimento.

Rileggendole in sequenza, quelle note, ho avuto l’impressione che qualcosa abbia trattenuto tutti coloro che all’avventura hanno preso parte dall’assumere qualche concreta iniziativa per evitare che una catastrofe politica si compisse.
È evidente che la via della scissione dell’estate 2010 non poteva che andare in questo senso, ma se i malumori che l’hanno innescata fossero stati “governati” da chi l’ha promossa e recepiti come segnali di autentico pericolo da chi l’ha subita, la storia del centrodestra sarebbe stata un’altra.

Ripercorrendo il quinquennio politico che si è concluso con lo scioglimento anticipato delle Camere il 22 dicembre 2012 e le elezioni svoltesi il 24 ed il 25 febbraio 2013, ho concluso che nulla è stato tentato per mantenere integra la coalizione perché non c’è stata la volontà da parte di nessuno di completare un progetto che avrebbe potuto cambiare la storia d’Italia se fosse stato realmente perseguito. Si è invece proceduto verso la dissoluzione del centrodestra come se i segni e le avvisaglie dell’affievolimento della coesione tra le componenti del Popolo della libertà non avessero alcun senso e si dovesse procedere verso un orizzonte confuso, trascinati da una misteriosa forza, senza prospettive e soprattutto incuranti dei pericoli, che pure si percepivano ma li si declassava ad “incidenti di percorso”.

La fine prematura del Pdl, insomma, sarebbe stata evitabilissima se soltanto si fossero realizzate determinate condizioni e se chi ne era più responsabile degli altri, reggendone le sorti, avesse operato una seria autocritica sulle modalità della sua nascita, sul suo effimero sviluppo, sulla crisi che lo ha connotato per buona parte del suo cammino fino alla dichiarazione di “fallimento”, solennemente pronunciata nell’autunno 2013 da Silvio Berlusconi che più d’ogni altro lo aveva voluto.

Mi è sembrato doveroso, dal momento che nessuno sembrava interessato ad occuparsi delle ragioni della prematura fine, della quale non mi sono affatto stupito considerando le modalità della nascita e della composizione del Pdl, rimettere a posto le note pubblicate nei cinque anni che promettevano di essere ben diversi da come sono stati e riproporle in parte – quelle più significative, a mio giudizio – in un libro corredato da considerazioni ex-post, da un’introduzione di inquadramento, oltre che da valutazioni finali in forma di conversazione curata dalla collega giornalista Lucia Bigozzi, la quale, peraltro, molto del materiale rimesso insieme conosceva bene, per averlo letto in tempo reale quale redattrice del giornale on line l’Occidentale, al quale per oltre due anni ho collaborato con assiduità e continuità.

Su Libero, Il Tempo, Liberal, Blitzquotidiano, Formiche ed altri organi di informazione, cartacei e non, che hanno ospitato senza mai censurare neppure una virgola tutte le mie analisi, molte delle quali riproduco nelle pagine che seguono, ho potuto documentare i regressi di una forza politica nata per innovare ed il contemporaneo degradarsi del bipolarismo italiano. Sicché, rileggendo il tutto, mi sono trovato tra le mani un diario che, al di là dei fatti, documenta una stagione politica tra le più scombinate della storia
repubblicana.

Non aver approfittato, tanto da parte del centrodestra che del centrosinistra, dell’ultima stagione disponibile, prima dell’avvento di forze estranee alla dialettica democratica come patologie della democrazia rappresentativa, per costruire quello “spazio riformista” del quale per quasi vent’anni si era discusso non la si può definire banalmente come un’occasione perduta. Di più: è stato un tradimento verso il popolo italiano che della delegittimazione reciproca dei due poli davvero ha mostrato di non poterne più e, di conseguenza, si è rifugiato o nel voto a forze antisistema o nell’astensione.

Un risultato che, oltre ad aver certificato l’ingovernabilità del Paese al culmine di una crisi economica e sociale dalle proporzioni devastanti, ha dimostrato anche il cinismo di una classe politica che pur di non riformare se stessa, come pure prometteva, si è arroccata a difesa di una legge elettorale che le ha consentito di espropriare i cittadini dalle loro prerogative e di conservare un potere che neppure i regimi oligarchici più ottusi e tetragoni al cambiamento hanno mai dimostrato in Europa nel secondo dopoguerra.

Se il Pdl sostanzialmente non è mai nato, il Pd ha parimenti deluso bruciando uno dopo l’altro ben quattro segretari in pochissimi anni per combattere guerricciole interne di potere, salvo ricomporsi nella “guerra santa” (quanta pochezza e quanta ipocrisia) a Berlusconi e farci insieme un governo, quello delle “larghe intese”, a testimonianza dell’impotenza di chi si è sempre, del tutto irragionevolmente, sentito “superiore” a chiunque: la più irritante delle eredità del comunismo storico italiano cui si sono accodati democratico-cristiani convertiti, che in tal modo hanno realizzato compiutamente il disegno dossettiano.

Che cosa resta di cinque anni sostanzialmente buttati via, sui quali ha apposto un sigillo scolorito l’anno di governo di Mario Monti e dei suoi tecnici, delle cui cure il Paese non si è giovato? Nulla di ciò che si sperava, molto di quanto si temeva: l’irruzione del grillismo, l’autorottamazione del Pd, che per tentare di rimettersi in sesto ha dovuto chiamare in servizio permanente effettivo Matteo Renzi gettando a mare tutta la vecchia nomenklatura, lo sfacelo del Parlamento ridotto ad un “bivacco” o, se si preferisce, ad una landa nella quale compiono demenziali scorribande parvenu della politica selezionati attraverso internet. E poi, la scomparsa della destra politica, la scomposizione del nucleo centrale del Pdl con la rinata Forza Italia da una parte ed il Nuovo Centrodestra dall’altro, la lenta agonia della Lega il cui progetto federalista è miseramente naufragato nonostante tutti, ma proprio tutti, si fossero adeguati alla ineluttabilità della fine dell’unità nazionale.

Il quadro politico è cimiteriale. Mi vengono in mente, tante volte, leggendo le cronache parlamentari o guardando le immagini televisive che mostrano gli sconci che si ripetono con una puntualità deprimente nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama, i versi di Thomas Stearns Eliot di The Waste Land (La terra desolata): «Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono/Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,/Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto/Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,/E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,/L’arida pietra nessun suono d’acque».

Sono versi che accendono comunque speranze e chi conosce lo spirito del grande poeta americano non se ne sorprenderà. Ma a noi oggi, che neppure ai poeti possiamo aggrapparci, non rimane altro che la desolazione incolmabile di una comunità nazionale che sta progressivamente scadendo nel tribalismo. Non sembra che il “dettaglio” interessi molto la politica che, da quanto ci sembra di capire, è totalmente inebetita davanti alla crisi morale, culturale e sociale del nostro Paese. È il solo terreno su cui centrodestra e centrosinistra si sono incontrati realizzando il bipolarismo perfetto.

Vi racconto l'allegro naufragio del Centrodestra

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