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Succede che le rilevazioni più recenti dell’umore degli investitori individuali americani (le persone fisiche, quindi, non i gestori professionali) diano solo un 37 per cento di ottimisti contro il 62 per cento dell’ottobre 2007, in corrispondenza con il massimo assoluto (1565 sull’SP 500) del ciclo rialzista 2003-2008. Il grande pubblico è generalmente più emotivo degli istituzionali ed è quindi ancora più interessante registrarne le variazioni di umore.

Naturalmente i fautori della scuola del sentiment ritengono che la borsa abbia diritto di salire finché la percentuale di ottimisti non sarà salita almeno al 62 per cento del record precedente. Vedremo. Abbiamo però l’impressione, per quanto riguarda gli investitori individuali, che sia avvenuto uno di quei cambiamenti di atteggiamento che avviene una o due volte al secolo. Chi fu scottato dal 1929 non comprò più azioni per il resto della sua vita nemmeno negli Stati Uniti, la patria dell’azionariato di massa. Chi era indebitato nel Giappone degli anni Ottanta, azienda o persona fisica, dopo avere ripagato il debito non ha mai più chiesto in prestito uno yen.
Ci sono traumi che restano stampati nel profondo e non si risolvono più. Molti sono riusciti a superare il crollo del Nasdaq nel 2000, ma la ripetizione dello shock otto anni dopo, su scala generalizzata e senza scampo per nessun settore azionario, ha convinto una generazione a stare alla larga dalla borsa o, al massimo, a delegare a un gestore lo stress della volatilità e della performance.

Lo confermano i dati sui flussi verso i fondi azionari. Dal 2009 all’inizio del 2013, anni in cui l’azionario è raddoppiato di valore, ci sono stati in realtà solo riscatti. C’è voluto il fortissimo rialzo dell’anno scorso per indurre di nuovo il pubblico a mettere qualcosa in borsa. Ci sono stati grandi titoli sui giornali, ma il fenomeno è durato poco. L’ultimo dato disponibile, relativo al maggio di quest’anno, registra addirittura un deflusso netto. Se gli individui approfittano dei rialzi per vendere e gli istituzionali restano più o meno convintamente nel mercato per produrre alpha, chi è che fa salire le borse? Sono le società che comprano azioni proprie.

La conclusione da trarre è che aspettare l’arrivo in massa degli investitori individuali e attendere, per vendere, che il vicino di casa, il personal trainer e l’anziana zia inizino a vantarsi dei loro successi azionari e a scambiarsi suggerimenti in ascensore rischia di essere un esercizio vano. Se non sono arrivati a borsa triplicata forse dovremo aspettare i loro figli.

Poiché le società continueranno a comprare azioni proprie nei prossimi due-tre anni (molti programmi di buy-back hanno durata pluriennale e sono già stati approvati dai consigli di amministrazione), l’unico soggetto che potrà eventualmente cambiare il corso (rialzista) delle cose sono i gestori istituzionali. Quei gestori che, in queste ore, si sono sentiti dire dalla Yellen che la Fed non aumenterà i tassi solo per fermare i mercati e che, semmai, ricorrerà, per frenarne l’ardore, a misure macroprudenziali (regolamenti più stringenti, margini iniziali aumentati, obbligo di tenere una certa quantità liquida).

Sentendo ancora una volta che la Fed non aumenterà i tassi (se non per ragioni macro al momento non ancora presenti) e vedendo che nessuna misura macroprudenziale viene effettivamente adottata, che cosa ne deve dedurre un gestore, se non che la Fed sorride ancora a quelli che comprano azioni? Ecco perché nessuno, se non qualche privato rimasto, è più venditore netto. Ecco perché i gestori rimangono investiti senza manifestare calore o emozione. Ecco perché le borse continuano a salire al ritmo lento e monotono degli acquisti di azioni proprie da parte dei tesorieri delle società quotate.

È un mondo nuovo, là fuori.

Perché la Fed di Yellen sorride a chi compra azioni a Wall Street

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