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Pochi giorni fa, il patriarca di Belgrado Porfirije si è recato in visita a Mosca per incontrarsi con onori il patriarca Kirill e il presidente Vladimir Putin. Una visita volta sì a ribadire l’unità spirituale e culturale tra i due popoli ortodossi, ma che ha avuto anche un’eco profondamente politica.

Nel corso dell’incontro, Porfirije ha ringraziato il presidente russo per la sua difesa dei “valori” tradizionali e ha evocato l’immagine della Serbia come piccola imbarcazione che naviga accanto alla “grande nave russa”. Il destino della Serbia, ha sottolineato, così come quello del Kosovo e della Republika Srpska, sarebbe legato alla posizione geopolitica della Russia, di cui il Paese balcanico è un partner storico. Accanto a lui, il vescovo Irinej di Bačka ha esplicitato: “Nel Russkij Mir, il mondo russo”. Se la retorica ha messo l’accento sulla fratellanza ortodossa e la lotta comune contro i valori “secolarizzati” dell’Occidente, il silenzio sulla guerra in Ucraina è stato altrettanto eloquente. Entrambe le Chiese hanno preferito ignorare il conflitto, pur ribadendo una visione comune in cui l’Occidente rappresenta una minaccia spirituale, morale e culturale.

Oltre a celebrare l’unità, però, Porfirije ha anche lanciato l’allarme sugli ultimi sviluppi politici in Serbia, deflagrati dopo il crollo del tetto della stazione ferroviaria di Novi Sad, nel novembre dello scorso anno, che ha causato 16 morti e una valanga di indignazione tra la popolazione serba. Quel che sembrava un tragico incidente si è rivelato il simbolo di un sistema marcio: appalti gonfiati (da 1,9 a 435 milioni di euro), documenti spariti, responsabilità insabbiate. Gli studenti sono scesi in piazza, seguiti da professori, agricoltori, sindacati e cittadini comuni. In poche settimane, metà delle università serbe erano in sciopero, mentre manifestazioni pacifiche invadevano oltre duecento città. Il 7 marzo uno sciopero generale ha provocato una catena di dimissioni: prima il sindaco di Novi Sad, poi due ministri e infine il primo ministro Miloš Vučević. La risposta del governo è stata dura: scontri con la polizia, minacce ai docenti, espulsioni di Ong, perquisizioni scolastiche. E, seppur promettendo riforme, il presidente serbo Aleksandar Vučić ha stesso tempo minacciato l’uso delle forze speciali.

In questo contesto, la posizione della Chiesa è apparsa ambigua. Se inizialmente Porfirije ha chiesto calma e dialogo, col tempo la gerarchia ecclesiastica si è spostata verso un prudente appoggio al governo. Per poi scalare decisamente di marcia durante la sua visita a Mosca, quando durante un colloquio con Putin ha definito le manifestazioni in corso in Serbia una “rivoluzione colorata”. Parole che, nella Russia di oggi, pesano come un macigno.

“Questa definizione, già fatta propria dal presidente Aleksandar Vučić, suona particolarmente allarmante all’orecchio russo, specialmente dopo il caso ucraino. La conversazione, pubblicata dai siti ufficiali, mostra come l’armonia e la vicinanza delle due Chiese si trasformino in allineamento politico” nota Lorenzo Prezzi in un commento pubblicato dall’Appia Institute. Prezzi suggerisce anche che per Belgrado,l’abbraccio al “mondo russo” può significare stabilità politica a breve termine, ma rischia di allontanare la Chiesa e lo Stato da una società civile che ha dimostrato di voler essere ascoltata.

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