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È stato un alto funzionario del Dipartimento di Stato a rendere noto che gli Stati Uniti hanno richiesto alla Siria di sospendere le missioni diplomatiche e richiamare il personale non residente nel Paese (una delle tre cose importanti successe attorno alla Siria in questi due giorni: le altre sono l’attacco israeliano nel Golan e la partenza, a quanto pare, dell’offensiva ribelle a Daraa).

In base all’ordine esecutivo, verranno chiuse l’ambasciata di Washington, e i consolati onorari di Troy in Michigan e di Houston in Texas. Secondo l’inviato speciale del governo americano in Siria, Daniel Rubistein, sarebbe impossibile che organismi del regime di Assad compiano operazioni consolari negli Stati Uniti – e la decisione rappresenterebbe per altro la risposta alla volontà di Assad di sospendere gli stessi servizi consolari per i siriani che vivono in America. (Rubinstein ha tuttavia sottolineato che i rapporti continueranno ad essere duraturi dopo la caduta di Assad).

E così l’ambasciatore siriano alle Nazioni Unite Bashar Jafari, già richiamato perché beccato a propagandare le ragioni di Assad in tour per gli States, avrà bisogno del regolare visto prima di muoversi al di fuori del raggio di 25 miglia (40 km) da Manhattan.

Ma a parte la formalità della notizia, il rischio di una rottura delle relazioni diplomatiche sulla Siria – leggasi “ruolo degli Stati Uniti e della Russia ai tavoli di colloquio” – è in questo momento evidente: con la possibilità che il fallout delle azioni russe in Ucraina seppellisca gli sforzi diplomatici congiunti e i piccoli passi fin qui compiuti.

D’altronde lo spirito di collaborazione era già fiacco prima della crisi in Crimea, figurarsi dopo che i rapporti hanno subito quel rapido deterioramento. A tutti gli effetti, è lecito pensare che nel Medio Oriente si potrebbe tornare alla concorrenza in stile Guerra-Fredda – con l’unica, pessima, conseguenza per la Guerra civile siriana, che presumibilmente vedrà allungare i suoi tempi con le forze pro e anti Russia impegnate in fronti opposti.

Circostanza che per certi aspetti è auspicata da alcuni leader mediorientali – su tutti ovviamente Assad ma anche l’egiziano al-Sisi – intenzionati a sfruttare la situazione e ad ottenere il massimo delle concessioni da entrambi i lati. Soprattutto sugli armamenti: al-Sisi nel suo recente incontro con Putin avrebbe parlato anche dell’intenzione dell’Egitto di fare spesa militare in Russia; come Assad, d’altronde sta facendo da tempo – le forniture russe sarebbero addirittura aumentate dopo l’accordo sulle armi chimiche.

A dare una lettura più laterale della vicenda, però, si potrebbe dire che in fin dei conti sulla Siria nulla cambierà: e quel “in fin dei conti“, sta lì quasi a testimonianza di una situazione che è di fatto statica da tempo, forse da sempre. L’interesse di Mosca è di sostenere Assad, ormai unico aggancio in Medio Oriente (e il Medio Oriente è il vero interesse di Mosca). Prendere d’esempio l’accordo sulle armi chimiche, sponsorizzato da Putin soltanto per evitare un attacco americano, che avrebbe messo in difficoltà il governo siriano, ma soprattutto la Russia stessa.

Ora sarà da vedere quanto e come Putin stesso riuscirà a giocare nella regione: la sua figura, proprio per l’appoggio ad Assad, non è molto amata, sebbene però la sua determinazione è una dote apprezzata sul piano personale, anche in opposizione alla titubanza accademica con cui viene dipinto Obama. Allo stesso infatti, sempre con una lettura meno convenzionale, si potrebbe accusare Obama di sfruttare la necessità della cooperazione con la Russia, per bloccare la situazione siriana e svicolare da scelte difficili.

Sarà comunque difficile per il presidente russo, dare garanzia ai Paesi mediorientali: partendo da quelli del Golfo, che non hanno necessità di domanda energetica, preferiscono l’acquisto di armi dall’Occidente perché migliori tecnologicamente, e soprattutto ancora scelgono di studiare nelle università occidentali.

La Russia di Putin, insomma, non è più in grado di offrire quanto offriva l’Unione Sovietica: come dire, l’appoggio ad Assad potrà anche aumentare, ma la capacità di plasmare la regione sembra limitata.

Più di Assad (e forse più di Putin), piuttosto, chi potrebbe uscire bene dalla vicenda è l’Iran. L’appoggio russo all’asse sciita si potrebbe concretizzare ai tavoli di trattativa sul nucleare, ma non solo. Le limitazioni occidentali post-crisi ucraina, qualora dovessero ampliarsi fino a colpire il sistema economico di Mosca e in particolare quello energetico, permetterebbero alla Repubblica Islamica (che non è di certo carente in gas e petrolio) di offrirsi in sostituzione agli attuali clienti russi. Questo presuppone che le sanzioni contro Teheran vengano meno; e sarà lì che i leader iraniani si giocheranno le proprie carte e Putin dovrà cercare di tenere in mano le proprie.

 

L'effetto Ucraina sui colloqui per la Siria

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