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Dal 1 marzo inizia una nuova odissea per chiunque utilizza la macchina per lavoro o per svago. Reggetevi forte vi do una notizia inedita: aumentano le accise sulla benzina.

Un’odissea che porterà gli automobilisti alla ricerca del distributore di benzina dove fare il pieno a costi ragionevoli senza ridursi sul lastrico.

Una odissea che rischia persino di mandare in soffitta il diritto alla mobilità moderna dei cittadini che, forse, la Costituzione all’art. 16 quando parla “di libera circolazione dei cittadini” intendeva, a prescindere dal mezzo con cui questa viene effettuata, tutelare perché veicolo di libertà. Ora quel veicolo rischia di restare senza carburante.

E la concorrenza negli impianti di distribuzione dei carburanti, sempre più agguerrita, si giocherà sul filo dei millesimi di euro per attrarre quei clienti (sempre meno) che ancora possono permettersi l’uso della macchina o della moto.

Per darvi una idea dal 2008 si sono persi, anche a causa dall’abnorme peso fiscale di cui sono gravati i carburanti, circa 9 miliardi di litri di prodotto sul venduto, che più o meno equivalgono alla perdita totale della clientela di 7000 punti vendita. La crisi è anche questa.

Dal 1 marzo al 31 dicembre 2018 i cittadini italiani vedranno dunque una nuova raffica poderosa di aumenti delle accise sui carburanti (compresa l’Iva sulle accise) per ben 1443,26 milioni di euro, così tanto per non perdere l’abitudine a vedere il prezzo della benzina salire salire salire…si parte dunque dal 1 marzo con un più 0,0024 eurocent per litro di verde di aumento della sola accisa.

Assopetroli, che rileva mensilmente lo Stacco Italia Accise in collaborazione con Figisc Anisa Confcommercio (prossima rilevazione il 2 marzo), cioè il differenziale che ci separa dal resto d’Europa, segnala nell’ultima rilevazione che gli italiani pagano 25,3 centesimi di euro al litro in più per la benzina. Ovviamente i 25,3 centesimi sono solo di accise a cui va aggiunta l’Iva sulle accise per una componente fiscale sul prezzo alla pompa per ogni litro di benzina del 60,95%. Cioè il fisco per ogni km che percorriamo per andare a lavoro o anche solo in gita con la famiglia, consumando benzina, vuole la sua parte alla quale poi vanno aggiunte tutte le altre imposte che gravano sulla mobilità, assicurazioni, bolli, revisioni periodiche obbligatorie, pedaggi e via dicendo.

Facciamo un passo indietro e vediamo perché di questa follia tutta italiana.

Nel caldo agosto del 2013 il governo del Fare di Enrico Letta, già alle prese con i buchi di bilancio e le mille pretese territoriali da elargire, varava – tra gli altri aumenti della pressione fiscale – il suo primo aumento delle accise sui carburanti per 75 milioni di euro, con una norma inserita nel decreto cosiddetto “del fare” per finanziare alcune misure di sviluppo. E con altri 75 vessava le piccole imprese energetiche ampliando la platea dei soggetti obbligati al pagamento della Robin Tax, imposta in odore di incostituzionalità. Misure queste volute in realtà solo per fare cassa e non certo per alimentare lo sviluppo…

Da agosto in poi sino alla caduta di Enrico Letta per opera di Matteo Renzi (che ha spiazzato tutti anticipando di qualche settimana le idi di marzo) sarà tutto un fiorire di clausole di salvaguardia.

Piccole norme dispositive, ma molto insidiose, inserite (sarebbe meglio dire nascoste) nelle pieghe dei troppi decreti legge proposti dal Governo e approvati in tutta fretta a colpi di fiducia, da un parlamento forse distratto e sempre in bilico tra maggioranze improbabili e partiti politici già in campagna elettorale per potersene rendere pienamente conto.

Questo nonostante gli allarmi lanciati da tutte le grandi associazioni di categoria, Assopetroli Assoenergia in testa.

Inasprire il peso fiscale dei carburanti e sull’energia, tuonavano sostanzialmente inascoltate le Associazioni, è una misura fortemente recessiva perché aumenta il costo della produzione che si scarica su tutta la filiera e in ultimo sui consumatori.

Insomma, faceva notare Assopetroli chiamata a riferire innanzi alla VI Commissione finanze della Camera dei Deputati lo scorso novembre, “l’inasprimento delle accise, e più in generale della tassazione indiretta, produce un effetto domino sui consumi generalizzato, che si ripercuote inevitabilmente ed indistintamente, sull’occupazione generando allarme sociale e instabilità. Già il 19 giugno scorso (2013), il Mattino di Napoli, per citare solo uno dei tanti quotidiani che si sono occupati – e si occupano – della questione, faceva rilevare come nella sola Regione Campania il “caro carburanti”, dovuto all’imponente pressione fiscale, avesse determinato un crollo delle vendite del 30%, il 45% negli impianti autostradali, rispetto allo stesso periodo del 2012. Tale crollo stava ponendo a rischio ben 2000 posti di lavoro nei soli impianti stradali e autostradali della Regione, e ciò senza contare tutto l’indotto. Una crisi occupazionale gravissima che, rapportata a livello nazionale, conferma i dati pubblicati da Libero il 30 ottobre 2012. Alessandro Carlini – ricordava alla Commissione Finanze Simone Canestrelli, vice presidente di Assopetroli Assoenergia – nell’articolo di Libero, faceva il punto sul caro carburanti e, prendendo spunto da uno studio del National Institute for Economic and Social Research (NIERS) realizzato per l’Associazione Fair-Fuel UK, esponeva dati e cifre che certificavano come ogni aumento del costo complessivo dei carburanti è deleterio per i posti di lavoro e il PIL. Lo studio citato certifica come, in Inghilterra, ad ogni aumento di 4 centesimi (in euro) si perdono 35.000 posti di lavoro e si arriva ad una perdita economica dello 0,1% sul PIL, inversamente per una corrispondente riduzione del prezzo, agendo sulla leva fiscale, si incrementa l’occupazione di 70.000 posti di lavoro e si genera uno 0,2 % in più di PIL.”.

Non credo che occorra dire altro per significare come sia profondamente errato da un punto di vista economico, perseverare nell’inasprimento della pressione fiscale in generale e sui carburanti in particolare.

Nonostante ciò, dopo la prima norma del decreto “del fare” che aumentava espressamente le accise sui carburanti, anche se nella precedente campagna elettorale dell’inizio 2013 tutti i partiti politici (PDL e Pd in testa) si fossero esplicitamente espressi contro ogni aumento delle stesse, tutte le altre norme che sono seguite in materia, sotto forma appunto di clausole di salvaguardia, ci porteranno, a meno di un rapido ravvedimento del governo in carica, ad un aumento mostruoso del prezzo della benzina e non certo per il costo del prodotto in se che nonostante tutto resta stabile, ma come detto per il peso fiscale che è divenuto insostenibile.

Ma cosa prevedono queste clausole. Ovviamente la copertura delle misure da finanziare che viene ricercata, come per l’imu ad esempio, attraverso entrate fantasiose se non improbabili derivanti vuoi dall’Iva di ritorno dal pagamento dei debiti della p.a. (che non sono stati pagati) come dalla sanatoria delle slot (miseramente fallita).

La chiave di volta per uscire dall’empasse, viene ancora una volta servita, su di un piatto d’argento da solerti e geniali tecnici ministeriali che inventavano la favola delle clausole di salvaguardia come chieste dall’Europa. E la politica (forse ignara degli effetti reali che vi si celavano) se ne faceva portavoce. Peccato che l’Europa chiede l’equilibrio di bilancio non certo furbesche clausole che tutto fanno tranne garantire l’equilibrio stabile dei bilanci mediante misure strutturali.

Ma le clausole sono oramai Legge e prevedono che, in caso di non raggiungimento degli obiettivi di entrata derivanti dalle disposizioni volte a reperire le risorse necessarie al finanziamento di determinate misure, si possa reperire quelle risorse attraverso corrispondenti aumenti degli acconti Ires, Irap e, manco a dirlo, delle sempreverdi accise sui carburanti. E così il conto sale, se tutto va bene, a solo 1.443,26 milioni di euro di aumenti già previsti perché le coperture che potrebbero evitarli sono improbabili e aleatorie.

Nell’era Renziana in cui si annunciano mirabolanti misure per centinaia di miliardi, senza sapere dove prenderli, e dove si spostano in pochi minuti i 10 miliardi attesi (ma non certi) dalla spending review, peraltro già considerati anche ai fini della eliminazione dell’IMU, verso altri utilizzi come la riduzione del cuneo fiscale, forse dovremmo iniziare tutti a preoccuparci di fare per tempo il pieno alla nostra macchina, prima che ci convenga mettere in banca una tanica di benzina invece di un lingotto d’oro, quanto meno per garantirci, sarebbe il caso di dire “salvaguardarci” la pensione.

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