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Prossimo alla pubblicazione, per Bompiani, è Ablazione, l’ultimo libro di Tahar Ben Jelloun.
Tahar Ben Jelloun è uno scrittore franco-marocchino che, da tempo, vive a Parigi. Mi sono imbattuto in lui in occasione del mio viaggio in Marocco. Lo faccio sempre, prima di partire, di avvicinarmi ai luoghi che dovrò visitare attraverso lo sguardo degli scrittori che li raccontano. E al tempo mi affidai proprio a Tahar Ben Jelloun e Fatima Mernissi.
Di Ablazione non so nulla. Vedremo. Ma, certamente, se volete avvicinarvi a questo autore, vi consiglio di partire da “Mia madre, la mia bambina”. E’ un libro molto toccante. C’è dentro un’idea di circolarità della vita cui non potrete rimanere indifferenti. Il libro è fortemente autobiografico ma le situazioni, i rapporti che il libro racconta sono talmente comuni, si nutrono talmente tanto della quotidianità di ognuno, che è impossibile non identificarsi nei vari personaggi, è impossibile non vedere riflessa, a pezzi, pezzi della propria vita.
Già, mi è sempre frullata in mente l’idea di immaginare l’incrocio delle due traiettorie esistenziali, quella della madre e quella del figlio. Un incrocio che avviene quando entrambi sono bambini. Ed è proprio quello che l’autore riesce a realizzare in questo suo libro, poeticissimo. Perché alla mamma, malata di Alzheimer, che vive con grande dignità e forza la sua malattia affidandosi alle sue convinzioni, ai suoi valori, tocca in sorte un finale di vita fatto degli incontri con i propri figli e quindi anche con l’autore che, al suo capezzale, ripercorre con lei pezzi della loro vita che la malattia sta riducendo in brandelli.
Così come il bambino non ha memoria dei suoi primi anni di vita e i suoi genitori sono lì pronti, da adulto, a offrirgli l’ordito che lega i momenti più belli che hanno vissuto con lui e che lui non può ricordare, così il figlio offre alla madre il suo ricamo più bello, quello dell’inchiostro che si annoda sul bianco della carta fissata da colla e legature in cui ricostruisce il diario di una vita.
La mamma di Tahar Ben Jelloun non ha mai studiato, ha avuto tre matrimoni, quattro figli e un’unica storia d’amore di cui non ha mai fatto racconto con nessuno, neanche quando il controllo della mente ha vacillato di più. Eppure, fino alla fine, è stata riferimento assoluto.
Come nonna Marietta, la mia bisnonna, capace di mantenere unita una famiglia eternamente divisa. Anche lei ebbe in sorte di giocare il suo finale di vita senza essere assistita dalla mente, e dalla memoria. Ebbe in sorte la sua Keltoum, mia nonna, sua figlia. E gli stessi problemi di relazione che nascono quando l’assistito che è vecchio e dolorante, vede sfuggire la sua memoria e quindi tutto il senso della vita. La mia bisnonna, come Lalla Fatma, voleva solo morire nella propria casa. E quando per alcune complicanze dovette essere portata in Ospedale, la prima cosa che urlò nel suo primo momento di lucidità, sporgendosi dal letto e guardando in terra, fu: “Queste non sono le mattonelle di casa mia”. E’ difficile stare accanto a un malato che non è sorretto dalla ragione. Ci vuole un amore grandissimo. Occorre affidarsi alla forza dei soli sentimenti, occorre comunicare senza grandi discorsi, ma semplicemente con un gesto che sappia trasferire l’essenza di tutto un rapporto, da anima ad anima. Vidi più volte mia nonna che l’accudiva perdere la pazienza con lei. Urlarle. Le sentii pronunciare cose terribili. Ma il destino che regola l’ampiezza delle gobbe e delle fosse su cui si sviluppa la storia di ciascuno, in quello stesso momento, aveva già scoccato l’onda che alcuni anni dopo l’avrebbe raggiunta. Si ammalò di demenza senile. E il suo finale, quello in cui la sua mente vedeva sfarinare la memoria in una polvere muta e ignota, lo dovette vivere in una casa di cura. Lontana dalle mattonelle di casa sua. Morì sola.
Episodio esemplare e che ammonisce noi interpreti di questa assurda modernità. Tutti, cittadini dell’ovunque, strozzati dai feticci del tenore di vita, concentrati a vivere un eterno start-up, un’eterna giovinezza, senza la dignità di Lalla Fatma, e senza i piccioli per essere accuditi e riveriti da una lussuosa umanità, moriremo soli, senza che la stanza in cui ci troveremo ci racconti di noi alcunché. E poi c’è mia madre. Che penso eterna. Che posso adorare e maltrattare, che ha la forza e la capacità sopportare i pesi più grandi come una possente fusoliera del più grande jumbo jet e, al tempo stesso, come una fusoliera, essere fragile rispetto a un carico concentrato che la colpisce di punta. La memoria di mia madre non è messa a dura prova dalle insidie di una malattia degenerativa come quella di Lalla Fatma, ma ha dovuto fare a brandelli pezzi della sua memoria, sbriciolandoli in pezzi piccolissimi per poterli metabolizzare. Lei che, primo fiore che non andava toccato, fu ceduta dalla sua mamma a un’altra mamma. Quella mattina, quando fu scelta per essere adottata, il mulo che tirava il calesse meticolosamente lustrato, primo per senno rispetto al carico che portava, ebbe un sussulto quando nella Piazza della Matrice svoltò sul Corso Vittorio Emanuele. Là dove il Corso costeggia il fianco della Matrice, dove anche l’Addolorata versò la sua lacrima più pietosa. Quella che vivifica la memoria, anche quando la sorte ce la vuole portare via.

Mia madre, la mia bambina

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