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Nelle pieghe di una politica italiana sempre più caotica pur nel permanere di ideologismi antichi che s’intrufolano nell’avan­guardismo di infanti che si sentono il centro dell’universo, sono davvero pochini i movimenti che s’accorgono dell’imperiosità della questione Europa, indipendentemente dal voto del prossimo 25 maggio, che potrebbe anche diventare un election day. Nella storia d’Italia, nei riguardi della politica estera, sin da prima dell’Unità sono esistite due scuole di pensiero.

La prima, molto frequentata dalla destra agraria, nazionalista, etnicista, economica e guerresca, ma anche da corpose falangi di sinistra per la quale il mondo è tutto ciò che abbia parvenza di antiborghesismo, la politica estera va considerata in funzione delle ricadute positive che possono riverberarsi sulla politica interna.

Per la seconda, particolarmente sostenuta da don Luigi Sturzo specie dopo l’esperienza disastrosa della prima guerra mondiale, la politica interna, pur in una cosciente e responsabile autonomia, va costantemente commisurata con l’evoluzione delle relazioni internazionali, così da potere assicurare, alle comunità nazionali, pacificità, progresso economico e libertà.

Fu Alcide De Gasperi, dopo l’esito spaventoso della seconda guerra mondiale, perduta dall’Italia e con vincitori quasi tutti decisi ad ottenere da noi riparazioni belliche onerosissime, a intuire che, se si voleva davvero cambiare pagina nella storia del Vecchio Continente, occorresse porre fine alle perenni ostilità tra Francia e Germania, specie per il controllo delle miniere della Ruhr, dando vita ad una comunità europea politica, sovranazionale ma non discriminatoria verso alcuna componente interna. Nella pace – anche economica, etnica e culturale – sarebbe stato possibile contenere sino ad eliminarli i conflitti storici, dare unità a Stati e staterelli gelosi della propria individualità ma anche perennemente esposti al rischio della prepotenza del vicino più grande e più forte.

La comunità europea s’è fatta. Dal 1979 ha anche un parlamento comune eletto a suffragio universale e a base proporzionale (cioè altamente rappresentativo anche delle unità marginali). Si è data persino una moneta unica che avrebbe dovuto facilitare gli scambi fra le diverse economie mondiali. Ma non è ancora dotata di una unità politica vera; mentre il suo dominio è praticamente affidato alla diarchia Parigi-Berlino, un asse equivoco quanto a qualità della vita democratica possibile negli altri paesi della comunità.

In Italia si sono andati affievolendo le voci della seconda scuola – la sturziana-degasperiana – persino nei piccoli movimenti che in qualche modo si richiamano a quelle esperienze – tipiche del cattolicesimo politico democratico: cioè anticonformiste e non succubi del monetarismo assolutistico e neppure di un euroscetticismo localista e nazionalista . Si è sempre meno attenti alla quasi totale scomparsa, nel resto d’Europa che non sia l’asse franco-tedesco, della sensibilità stessa del concetto di libertà: che non può essere mai intesa come silenziosa od omertosa sudditanza verso un’egemonia grintosa, prepotente che, privilegiando se stessa, depaupera tutto il resto degli Stati aderenti, minacciandone sistematicamente le loro potenzialità endogene, emarginando le loro possibilità competitive.

I gruppi di centro – postdemocristiani, liberali, progressisti demo­cratici, moderati e convinti d’una seria sovranazionalità – stanno dando ultimamente segnali di risveglio da un lungo, non incolpevole letargo. E sembrano alzare la loro flebile voce nel largo disinteresse dei media, che neppure prendono in considerazione le piccole formazioni, non degnandole neppure di menzione. Per reagire ad una tale, penosa realtà mediatica, che ha un indubbio peso nella comuni­cazione politica, c’è stato qualche esponente popolare europeo (come Gargani) che ha proposto a tutti i gruppi che non si riconoscono nei grandi blocchi italiani, internazionalmente fragili, di dare vita a liste unitarie di candidati comuni (che non si neutralizzino reciprocamente) e possano così persino prevalere nella consultazione europea di maggio, fornendo al partito popolare europeo maggiore forza contrattuale rispetto alle altre grandi famiglie europee. L’auspicio sarebbe: meno candidati, più eletti.

LA PROPOSTA

La proposta è seria, motivata, e anche realistica. Probabilmente troverebbe ben altra udienza sui mezzi di comunicazione se entrasse di più nel merito delle questioni aperte in Europa. Come l’assenza di un governo politico che possa essere anche sfiduciato dal parlamento eletto dai cittadini europei, come accade nei parlamenti nazionali. O come il rovesciamento del monetarismo a favore di una politica economica guidata da politici, e non da tecnici che finiscono col dipendere dalle oligarchie finanziarie che muovono a proprio piacimento i mercati interni acquisendovi le imprese sane e facendo fallire quelle strategiche.

Ovvero quella di una giustizia europea che s’imponga sulle giustizie ingiuste dei paesi che ne sono palesemente soffocati.

O l’altra di lasciare in vita l’euro, ma non più euro-marco. Soprattutto è tempo di ristabilire un autentico partenariato con gli Stati Uniti, sicché il binomio America-Europa riacquisti e mantenga competitività reale con Cina e India: dove c’è ancora troppo disprezzo per le condizioni di lavoro, nessun rispetto per i diritti d’autore ed i marchi di fabbrica, condizioni di vita civile largamente oppressive.

Un ultimo punto: il rigore. Non si giochi con le parole. Una economia, a cominciare da quella familiare, cioè l’unità di base per qualsiasi comunità (nazionale o internazionale), non può fondarsi sullo spreco, sul privilegio, sulla illegalità; e va sviluppata secondo equità, mai con criteri pseudoegualitaristi o penalizzanti qualcuno. Quindi il rigore è (dovrebbe essere) una regola utile, non un’impo­sizione da pare di chi abbia il coltello per il manico. Perché il rigore possa tornare utile, richiede condivisione e fisco non esoso, elimi­nazione di parassitismi e di burocratismi, di lassismi ed inefficienze. Purtroppo, non è questa la realtà né dell’Italia, né dell’Europa.

Per un’Europa politica, popolare e non vessatoria

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