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Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali

Nonostante i continui rinvii, l’Onu ha fissato per il 22 gennaio l’inizio ufficiale dei colloqui di pace “Ginevra 2” che dovrebbero favorire una soluzione internazionale al conflitto siriano.

La collocazione geopolitica della Siria, divenuta un tassello nevralgico anche per quanto concerne gli equilibri diplomatici tra Stati Uniti e Russia, ha fatto riecheggiare le ripercussioni degli eventi in corso nel paese ben oltre l’area del Mediterraneo orientale.

Le condizioni dei civili coinvolti nelle ostilità restano per il momeno una questione sospesa e di difficile gestione. Oltre alle vittime sul campo (che secondo una stima dell’agenzia Onu che si occupa di rifugiati, Acnur, sono superiori alle 100 mila), il conflitto ha provocato più di cinque milioni di sfollati all’interno del paese e ha creato un flusso di oltre due milioni di profughi, diretti principalmente verso Turchia, Libano, Giordania, Iraq e Egitto.

Tra questi, più di 500 mila sono donne, di cui circa 41mila in stato interessante. Impossibile da quantificare è invece il numero dei dispersi e degli arresti effettuati dal regime.

La Turchia, sia per ragioni di continuità geografica sia per il sostegno offerto ai dissidenti e ai movimenti di resistenza al regime del presidente Bashar al Assad è, insieme al Libano, uno dei paesi maggiormente coinvolti da questa ondata migratoria.

A oggi i rifugiati presenti sul suolo turco sono circa 700 mila, prevalentemente sunniti, ma anche curdi, aleviti e turkmeni siriani. Secondo Kamal Malhotra, rappresentante interno del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) in Turchia, il numero potrebbe salire a un milione entro la fine dell’anno.

Il governo guidato dal partito per la Giustizia e lo Sviluppo, Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp), persegue infatti la politica della “porta aperta” nei confronti degli esuli siriani già da marzo 2011, sebbene i valichi di frontiera siano chiusi di volta in volta a causa degli scontri che avvengono in prossimità del confine.

Fin dai primi mesi del conflitto e in accordo con le autorità locali, l’Acnur offre servizi e assistenza di vario genere, nel rispetto dei limiti impostigli dal governo turco. Ankara tratta infatti la questione come un tema di sicurezza nazionale e l’interno dei campi è gestito dalle autorità centrali, con scarsa volontà di coinvolgere – da un punto di vista organizzativo – paesi o enti terzi.

Secondo i report quotidiani dell’Acnur, circa 210 mila rifugiati vivono nei 21 campi allestiti dalle autorità turche (principalmente nelle città del sud-est come Gaziantep, Şanliurfa, Antakya, Kilis e Mardin), mentre almeno 346 mila risiedono al di fuori di queste strutture, disseminati in varie province, soprattutto in Anatolia. Mancano però complessi di accoglienza e la maggior parte degli esuli si trova al momento senza lavoro e denaro per provvedere a una sistemazione.

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Chiara Bastreghi è stagista dell’Area Mediterraneo e Medioriente dello IAI (Twitter: @ChiaBastre).

L’ondata migratoria siriana

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