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Cosa c’è dietro la spinta di Blinken per il cessate il fuoco a Gaza

Sul tavolo della visita di Blinken in Medio Oriente non c’è stato semplicemente il cessate il fuoco a Gaza. In ballo c’è molto di più e tutto passerà anche dalle parole che il G7 sceglierà per affrontare la crisi, mentre i rivali delle democrazie pressano

“Ho chiesto alla Commissione Europea se potevano confermare quanto affermato da [Antony] Blinken, cioè che Israele ha accettato l’accordo di pace. Non confermano né smentiscono. Per me significa negare, perché l’Ue non osa offendere gli Stati Uniti su questo punto. Qualcuno deve mentire cercando di trovare un capro espiatorio”. Ha scritto così su X il capo dell’ufficio europeo del China Daily, giornalista influencer noto da tempo per diffondere la narrazione del Partito/Stato. È questa una delle ragioni per cui è in corso un nuovo forcing diplomatico per trovare una soluzione alla guerra.

I Paesi che contestano l’Occidente — perché vogliono sostituire l’ordine internazionale con un modello pragmatico-autoritario al posto di quello basato su regole e diritto — usano il dossier per far emergere incoerenze e incongruenze. In questo caso sfruttano un argomento di cronaca — l’Ue che si sta rinnovando dopo il passaggio democratico del voto europeo. Alcune delle posizioni che hanno ottenuto risultati migliori nelle ultime elezioni infatti non apprezzano particolarmente l’allineamento con Washington (e non amano il supporto a Israele).

Il giornalista cinese fa riferimento all’ottava visita di Antony Blinken in Medio Oriente dal 7 ottobre — giorno del mostruoso attentato di Hamas che ha avviato l’attuale sanguinosa stagione di guerra — in corso in questi giorni e coincidente con due importanti mosse statunitensi che il segretario di Stato, capo della diplomazia dell’amministrazione Biden, è andato a difendere nella regione.

Prima la proposta di de-conflicting avviata dal presidente in persona, poi la risoluzione onusiana per il cessate il fuoco. Blinken deve gestire non solo la situazione diplomatica, ma anche il momento sul campo. Domenica, un blitz israeliano per liberare quattro ostaggi ha prodotto diverse vittime civili e riacceso la linea più dura dell’organizzazione palestinese — oltre che aver gettato benzina sul fuoco dei critici anti-israeliani.

Non solo. Fattore ben più complicato è quello del fronte nord, dove gli scontri che coinvolgono Hezbollah (i guerriglieri sciiti libanesi che odiano Israele e che sono collegati a doppio filo con i Pasdaran) sono sempre più intensi. È una situazione delicatissima, perché lo stato ebraico è tecnicamente in guerra con Hezbollah dal 2006 — e in questi otto mesi di conflitto, in cui si è sempre temuto l’allargamento regionale, si è altrettanto sempre pensato che quello con il Libano era il fronte più a rischio.

Blinken si è mosso anche tenendo in considerazione questo quadro regionale, con Beirut (sconquassata a livello istituzionale e socio-economico) con cui lavorare per evitare l’escalation, mentre sul fronte opposto della Striscia di Gaza sale lo stato d’ansia al Cairo. Non a caso, la prima tappa del segretario statunitense è stata la capitale egiziana: il presidente Abdel Fattah al Sisi pressa per costruire i presupposti per avviare un percorso di riequilibrio. Ha comunicato a Blinken (lo ha detto pubblicamente) che vuole porre “il conflitto al centro” degli affari internazionali.

Ed è vero che Sisi pensa al tema umanitario, ma è altrettanto vero che sa quanto i suoi equilibri interni dipendano dalla guerra appena oltre il confine orientale del suo Paese. I rapporti con Israele sono necessari dal punto di vista economico-commerciale, e la cura dei fratelli palestinesi è vista dagli egiziani come una necessità (e Sisi non può perdere consenso su questo), ma allo stesso tempo il rischio di un’ondata di profughi in fuga da Rafah è uno spettro per la popolazione (che sta cercando faticosamente di rialzarsi dalla crisi).

Al presidente egiziano, Blinken ha cercato anche di trasmettere rassicurazioni sull’intercessione che Washington sta facendo con il governo di Benjamin Netanyahu. Il segretario ha incontrato il primo ministro subito dopo aver lasciato Il Cairo, e nel faccia a faccia (a cui è poi seguito quello col ministro della Difesa Yoav Gallant), ha cercato di marcare il senso del dialogo in corso: gli Usa sono con Israele, ma adesso Tel Aviv deve fare un passo responsabile.

E però, Netanyahu ha già ricevuto minacce dai partiti di destra più radicale, che insistono che qualsiasi accordo fatto adesso farebbe cadere il governo (e Bibi tutto vuole fuorché restare senza potere). L’uscita dall’esecutivo di responsabilità istituzionale di Benny Gantz, il leader centrista che vi era entrato dopo l’attentato e in vista della risposta armata israeliana, ha ridato ai partiti ultra-conservatori/religiosi una nuova spinta narrativa, mentre gli Stati Uniti tenderebbero a isolarli.

L’accordo che Joe Biden ha proposto serve anche a questo. La risoluzione per un cessate il fuoco “immediato”, condizionato anche al rilascio degli ostaggi, pure. Nel testo c’è un passaggio che sposta la palla più avanti: gli Usa dicono che la proposta di Biden è stata in principio “accettata” da tutte le parti, per questo vengono ora spinte “ad attuar(ne) pienamente i termini senza ritardi o condizioni”.

E attuare il cessate il fuoco per Washington è funzionale al passo ancora successivo: la stabilizzazione da cui avviare un percorso di ricostruzione definito. E qui c’è un altro dei nodi da sciogliere, stretto al punto che ha richiesto il ritorno di Blinken in persona (dopo che già il capo della Cia e l’inviato speciale per il Medio Oriente erano stati nella regione nei giorni scorsi). Chi amministrerà la Striscia nel day-after è un elemento determinante per definirlo quel day-after.

Non potrà essere chiaramente Hamas, ma l’Autorità palestinese — recentemente criticata anche dai sauditi — dovrà riformarsi e riorganizzarsi. Però prima servirebbe fermare le armi: Netanyahu dice che combatterà finché Hamas non sarà sconfitta in ogni sua forma, mentre l’organizzazione palestinese chiede un cessate il fuoco immediato. E questo lascia appeso sul filo del cessate il fuoco il destino dei miliziani della Striscia: Hamas dice di essere pronta a collaborare, ma come?

Qui il punto, in definitiva, è se accetterà o meno il disarmo e la disgregazione (magari con la riqualificazione di qualcuno e con la caccia continua ai leader di guerra come Yahya Sinwar). La complicazione è che sta circolando sui media israeliani un documento sull’accordo in cui non è incluso niente di specifico a proposito del dissolvimento di Hamas. E questo significa che Israele accetterebbe la fine della guerra tout court? E si torna al punto di partenza: Netanyahu dice che sono menzogne, anche sotto il pressing delle ali oltranziste del governo.

Per tornare proprio all’antefatto, invece: nei prossimi giorni il dossier Gaza sarà sul tavolo del G7, portato dagli Stati Uniti per il suo valore strategico (anche per il ruolo che le democrazie hanno nel mondo, e alle loro incoerenze come ricordava il presidente di Timor Est all’omologo ucraino). All’Italia, presidente di turno, il compito di veicolare un wording funzionale e in qualche modo efficace da inserire nel Communiqué conclusivo della riunione tra leader che dopodomani inizierà in Puglia.

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