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Come fronteggiare la guerra dell’Isis

Come ci sentiamo questa mattina? Indignati, devastati, impauriti, determinati? In fuga o al contrattacco? Cantiamo la Marsigliese, Fratelli d’Italia o suoniamo il silenzio? L’11 settembre 2001 eravamo tutti americani, poi siamo stati tutti madrileni nel 2004, tutti londinesi nel 2005 e tutti Charlie nel 2015. Adesso scopriamo che è un attacco al cuore dell’Europa. Ma davvero? Solo adesso? E che cosa è successo in tutti questi anni in cui abbiamo compreso, analizzato, giustificato persino? La verità è che non eravamo pronti a capire e ad accettare e probabilmente non lo siamo ancora.

Solo un Candide chiamato Francesco ha osato chiamare la cosa con il suo nome. C’è una guerra in corso ed è una guerra mondiale. E’ asimmetrica come dicono gli strateghi, ma non solo, è politica, ideologica, culturale.

Dunque, partiam partiamo? E per andare dove, in Siria con le nuove brigate internazionali? In Libia con la legione straniera? Nessuno sa bene come combattere su tanti fronti e con tali nemici. Ma il problema non è solo questo. Il problema di fondo è prima riconoscere poi conoscere il nemico per evitare che succeda come nel 1939.

La questione più importante è di carattere culturale, anzi del vuoto culturale in cui si trova una Europa che non ha chiara la propria identità al punto tale da cercarla nel sangue, nella tribù, nel villaggio, come predicano i movimenti nazional-populisti, senza capire che l’idea di nazione è una scelta libera e razionale, che trova la sua àncora nei valori condivisi e nelle leggi che li esprimono.

Non una guerra di civiltà (termine opaco, tra storicismo e antropologia impossibile da definire, dunque da conoscere), ma scontro tra progetti politici opposti. Ci si chiede perché i bersagli principali sono la Francia e gli Stati Uniti? Perché sono i due Paesi che, imbevuti dello spirito dei Lumi hanno compiuto le due rivoluzioni che hanno segnato la modernità tracciando il confine con l’epoca delle guerre di religione, della teocrazia e del dispotismo, cioè della triade che campeggia sulle bandiere dei jihadisti.

Ecco quel che dobbiamo riconoscere e dibattere apertamente, nelle scuole, nelle piazze, in televisione, senza l’ipocrisia dei sepolcri imbiancati o la ferocia della pulizia etnica. A quel punto, una volta capito chi è il nemico, che cosa vuole, contro che cosa combatte saremo meglio attrezzati per questa lotta di lunga lena e potremo penetrare anche nelle menti e dei cuori dei musulmani.

Allora, forse (lasciatemi sperare) ci sarà anche tra loro un Guido Rossa il quale, come l’operaio genovese che nel 1979 denunciò le Brigate Rosse a costo della propria vita, sappia dire “no, questi non sono fratelli che sbagliano, sono miei nemici”.

Stefano Cingolani

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