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Ecco come l’Isis minaccia gli interessi italiani in Libia

Dum Romae consulitur. Mentre a Roma si discute, come scriveva Tito Livio parlando della situazione militare nordafricana del 219 a.C., Isis continua l’offensiva in Libia.

Il sedicente Califfato sta proseguendo la sua azione di guerriglia volta a logorare le difese dell’ancora tutt’altro che consolidato governo libico. La sua strategia, già discussa qui, rimane immutata: concede in franchising il proprio marchio a numerose tribù di predoni che si muovono indisturbate nell’enorme area che va dal Sahel alla Nigeria fino alla costa libica.

Queste ultime, in cambio di una formale adesione alla causa apocalittica dichiarata da Abu Bakr al-Baghdadi, possono considerarsi in stato di tregua con le bande rivali ed effettuare scorribande fregiandosi del prezioso marchio sul quale Isis ha pesantemente investito con una campagna multimediale tanto capillare quanto truculenta.

L’estrema eterogeneità di queste bande è l’elemento caratterizzante tanto della loro forza quanto della loro debolezza: sono virtualmente imprendibili, potendosi muovere indisturbate su un territorio immenso, ma sono poco coordinate. Pertanto non possono permettersi scontri aperti – come le consorelle in Siria e Iraq – ma si limitano ad azioni di guerriglia volte a demolire le capacità produttive e organizzative libiche e, quindi, minando alla base gli sforzi interni ed internazionali per ridare un governo riconosciuto al territorio precipitato nel caos con la deposizione di Muammar Gheddafi.

L’efficacia della guerriglia, le precarie condizioni in cui versano le istituzioni governative locali e – non ultima – la sempre meglio organizzata offensiva contro le roccaforti del Califfato in Iraq e in Siria, ha portato la multinazionale del terrore a trasferire proprio qui la propria sede amministrativa.

Di pochi giorni fa il blitz contro le infrastrutture governative della città di Sabratha, sulla costa occidentale. Qui i predoni sono riusciti a seminare il panico, decapitare 12 soldati, ucciderne altri 7 e ritirarsi prima di essere respinti. Questo attacco aveva l’evidente scopo di indebolire il controllo governativo proprio nella zona ad ovest della città. L’area, sotto il controllo delle bande, costituisce il terminale di raccolta ed imbarco per il traffico di rifugiati che cercano di arrivare via mare in Italia.

Ma la maggior parte degli attacchi ha l’obiettivo di minare l’infrastruttura petrolifera libica e, in questo modo, colpire sia la principale fonte di ricchezza del Paese sia gli interessi nazionali italiani.

Il 2015, secondo il World Oil and Gas Review, è stato l’anno peggiore per l’industria energetica libica dalla guerra civile del 2011: solo 400mila barili di petrolio al giorno (le potenzialità produttive potrebbero toccare i 2 milioni di barili al giorno) e di questi è riuscita l’esportazione di soli 250mila barili al giorno.

Intanto il governo italiano sta “agendo su più fronti”. O meglio, alterna dichiarazioni ad azioni concrete più contraddittorie.

Lasciando stare le prime, ormai piuttosto circonvolute, e passiamo ad analizzare i fatti.

A terra, le infrastrutture petrolifere – specialmente nell’area tra Zuwara e Sabratha – sono da mesi presidiate da forze speciali.

Di fronte alle coste, la Marina Militare si trova già in azione con le navi dell’operazione Mare Sicuro a protezione degli interessi nazionali: le piattaforme offshore ed il gasdotto Greenstream.

In Italia, le forze speciali italiane pronte all’impiego sono i paracadutisti della Folgore, le forze speciali Comsubin e Col Moschin, che da tempo si stanno addestrando per un’emergenza in Libia (il Corriere della Sera racconta oggi che “una cinquantina di incursori del Col Moschin dovrebbero partire nelle prossime ore” per il Paese nordafricano, per aggiungersi “alle unità speciali di altri Paesi, Francia, Inghilterra e Stati Uniti, che già da alcune settimane raccolgono informazioni e compiono azioni riservate” nell’ex Regno di Muammar Gheddafi. E che il nostro servizio segreto per la sicurezza esterna, l’Aise, potrebbe “dirigere le operazioni di unità speciali militari italiane in Libia”, secondo “una nuova linea di comando… “decisa con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri adottato il 10 febbraio”.). Questi corpi speciali sarebbero supportati da cacciabombardieri Amx, aerei C130 per il trasporto di mezzi e truppe sotto la protezione dei nostri elicotteri.

La piattaforma autorizzativa parte dalla Legge 198 approvata a novembre 2015: permette alle unità speciali di agire con le stesse regole di ingaggio dei servizi segreti ma solo per missioni militari con ruolo di supporto, a richiesta delle autorità libiche. Cioè a richiesta del governo di unità nazionale libico che, appena insediatosi, dovrà chiedere formalmente l’intervento delle Nazioni Unite per stabilizzare il Paese. Il Consiglio Supremo di Difesa il 26 febbraio ha definito la strategia di intervento sulla base di questa legge.

Intanto, i droni Predator della base pugliese di Amendola sorvolano da mesi il territorio libico “esclusivamente per compiti di ricognizione”.

Da pochi giorni, la sezione sotto controllo americano della base navale di Sigonella è autorizzata a fare decollare droni armati statunitensi. Ma il governo italiano dovrebbe avere il diritto di autorizzare ogni missione armata e limitarne l’azione “solo a scopo difensivo”.

Infine, da mesi i Tornado italiani partono da Trapani e dal Kuwait per illuminare i bersagli in Siria e in Iraq che poi vengono colpiti da aerei di altre nazionalità.

Le esitazioni formali italiane sembrano dettate da una triplice motivazione: non si vogliono scatenare le opposizioni interne in caso di vittime civili libiche o di perdite militari italiane, si vuole evitare a tutti i costi di impantanarsi in una escalation verso azioni militari di vasta scala su un territorio così immenso, si vogliono evitare ritorsioni di Isis contro le infrastrutture e il personale italiano in Libia e, ancora di più, atti di terrorismo sul nostro stesso territorio.

Comprensibilissime e più che giustificate le prime due motivazioni, ma la terza non sembra molto fondata. Ormai è difficile sostenere che il nostro Paese non si impegna militarmente e sperare che, grazie a queste dichiarazioni, non diventi un bersaglio. Volendo definire una data, l’Italia è entrata ufficialmente in guerra con Isis nel 2014.

Nell’agosto di quell’anno, infatti, dalle gallerie bunker scavate sotto la base della Marina Militare sull’Isola di Santo Stefano in Sardegna, è partito un carico costituito da decine di container carichi di armi. Queste armi erano frutto della confisca di un’intera nave che il miliardario russo Alexander Borisovich Zhukov – uno degli oligarchi della nuova Russia – nel 1991 stava cercando di portare dall’Ucraina alla Croazia, durante il conflitto dei Balcani.

Il ministro della Difesa ha dichiarato che il carico è «costituito da armi individuali, di squadra e contromezzi, con relativi munizionamenti, tutti di fabbricazione ex sovietica, confiscati dall’autorità giudiziaria a seguito del sequestro in mare di 20 anni fa». Ci siamo liberati di questo imbarazzante fardello e lo abbiamo destinato ad armare i Peshmerga a Erbil nel Kurdistan iracheno, impegnati proprio contro l’Isis.

L’ex ministro della Difesa Arturo Parisi ha inquadrato l’intera situazione con un efficace epigramma: “L’Italia non è in guerra, ma è dentro una guerra. Per essere in guerra bisogna almeno avere una visione comune del nemico e di come combatterlo”.

In conclusione, la Libia ha una importanza strategica non solo per l’Italia, visto che è al nono posto al mondo fra i Paesi più ricchi di petrolio con riserve stimate in 48,363 milioni di barili, cui si aggiungono 1,505 miliardi di metri cubi di gas. Chi scenderà in campo per cacciare il Califfato dalla Libia lo farà per difendere i propri ideali, il proprio Paese ed i propri interessi, non certamente per difendere i nostri.


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