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Ecco la vera sfida di Stefano Parisi

In vista della grande kermesse di Milano, speriamo che Stefano Parisi abbia avuto tempo e modo per riflettere sulla storia di Forza Italia. Condizione indispensabile per non limitarsi agli slogan del passato. Il successo di quel movimento fu il frutto di diversi ingredienti: la personalità di Silvio Berlusconi, la sua grande abilità nel comunicare, le attese di quello “zoccolo duro” – la classe media – allergica da sempre alle “gioiose macchine da guerra”. Ma questi sono, per così dire, elementi di complemento.

Il vero motore di quel successo va ricercato più nel profondo. Nelle grandi trasformazioni socio-economiche che avevano investito tutto il mondo occidentale. E che si riflessero – basti pensare all’implosione della vecchia Urss – in tutte le realtà dei Paesi europei. E’ stata la globalizzazione a spazzar via vecchie pratiche di governo ed una cultura politica che aveva nel primato dell’amministrazione sul mercato il suo fondamento consolidato. Forza Italia nasce, nello spazio di un mattino, sulla spinta non solo economica di queste nuove forze, con una agenda politica che nega in radice vecchi schemi di pensiero. Che la nuova realtà ha spazzato via.

La stessa Lega Nord, figlia di analoghi processi, aveva posto il problema dell’emancipazione solitaria del proprio territorio, proprio per liberarsi di quegli appesantimenti burocratici che il vecchio modello dirigista imponeva a tutto il Paese. Ma impediva, soprattutto al Nord, di poter competere, ad armi pari, con gli altri soggetti forti del processo di globalizzazione.

Per converso, la crisi di Forza Italia nasce nel momento in cui la globalizzazione, dopo la crisi del 2008, incontra un momento di grande difficoltà. Al punto da far ritenere che la “sua forza propulsiva” si sia, in qualche modo, esaurita. Almeno per quanto riguarda una parte dell’Europa. Certamente nei confronti dell’Italia. Paese in cui la redistribuzione del reddito a livello internazionale si insinua, come una lama, negli equilibri sociali del Paese, accentuando il fenomeno delle “vecchie e nuove povertà”

Se questo sarà, con ogni probabilità, il ciclo dei prossimi anni è evidente che non si potrà far conto solo sul mercato. Con la caduta dei ritmi di crescita del commercio internazionale, solo una parte delle imprese italiane, un 25 per cento o giù di lì, potrà continuare ad avere ritorni positivi per la propria attività. Il resto dovrà poter contare su una ripresa possibile della domanda interna. Che a sua volta richiede una “nuova” politica economica.

Una minore imposizione fiscale? Indubbiamente. Ma anche forti investimenti pubblici per colmare i mille ritardi della società italiana. Su questa prospettiva l’accordo è pressoché generalizzato. Lo stesso Mario Monti ha recentemente abbandonato il mantra dell’austerity. C’è solo un piccolo – si fa per dire – grande problema. Dove trovare le ingenti risorse necessarie che servono. E che non possono essere il risultato dei meccanismi della “flessibilità”: eufemismo per dire “a debito”. Questo è il tema vero su cui dovrà esercitarsi la politica dei prossimi anni. A partire dall’imminente “legge di stabilità”. E bene precorrere i tempi e cominciare a metterci la testa.

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