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Pompeo chiede disponibilità agli alleati anti-Is. La linea dietro il ritiro dalla Siria

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è intervenuto ieri alla conferenza ministeriale dei paesi che sostengono la Coalizione internazionale contro lo Stato islamico (sono 79 in tutto) e ha detto che “probabilmente” la prossima settimana si potrà dire che l’Is avrà perso “il 100 per cento del territorio”. È un annuncio importante, fatto davanti ai diplomatici alleati ospitati a Foggy Bottom (sede del dipartimento di Stato, a Washington), su cui però Trump ha rapidamente corretto il tiro: proseguendo il discorso, il presidente ha infatti detto che non vuole annunciarlo subito perché serve di avere la parola ufficiale e che comunque anche dopo aver perso la componente statuale i militanti “andranno sottoterra” e continueranno a essere una minaccia.

È un equilibrismo necessario: dal 19 dicembre, quando ha annunciato il ritiro dei soldati americani anti-Is dalla Siria, Trump sta passando dal “abbiamo sconfitto l’Is” a dichiarazioni più circostanziate e riviste. Il punto è che, mentre per il presidente tirare fuori i soldati dalla Siria è una necessità politica (lo ha promesso in campagna elettorale, lo ha detto più volte durante la presidenza, è un punto fermo delle sue visioni che interessa l’alleggerimento del ruolo americano nel mondo), la realtà è piuttosto più complicata.

I pianificatori strategico-militari avvertono che il rischio di un’uscita frettolosa è enorme, si potrebbe lasciare spazio al caos, humus perfetto per far attecchire nuovamente le istanze estremiste dei baghdadisti, che per altro sono già entranti in una fase di clandestinità, sparpagliati e nascosti, mentre hanno perso la quasi totalità del territorio precedentemente controllato proprio grazie all’azione della Coalizione internazionale a guida americana – una delle campagne militari che segnerà la dottrina futura, coinvolgimento minimo, precisione chirurgica, accordi con forze locali (i curdo-arabi), risultati eccezionali, contro un nemico altrettanto storico: un gruppo terroristico che s’era fatto stato e amministrava a cavallo di Siria e Iraq una dimensione territoriale grossa come il Belgio in cui vivevano circa dieci milioni di persone.

Gli effetti di un ritorno in forze dell’Is sono ovvi: potrebbe riconquistare territorio, che potrebbe nuovamente servire da base logistico-ideologica per attentati in giro per il mondo (obiettivo prediletto, come s’è visto, l’Europa). Anche per questo il padrone di casa, il segretario Mike Pompeo, ieri ha cercato di rassicurare gli alleati – tutti piuttosto spiazzati dalla rapidità con cui Trump aveva annunciato di voler portar via le truppe dalla Siria. “Abbiamo del lavoro davanti” per sconfiggere definitivamente l’Is, ha detto Pompeo.

(Nota: c’è una consapevolezza tra analisti e pianificatori, questo è il momento di continuare, non di mollare, perché il vantaggio acquisito nei confronti dello Stato islamico può permetterne non solo la sconfitta nella dimensione statuale, ma una sorta di eradicazione definitiva, costruendo anche i giusti presupposti politici. Ma è una missione ancora lunga e complicata: almeno altri due anni per dare un tempo minimo stimato).

“Il recente attentato suicida a Manbij dimostra che l’Isis rimane una pericolosa minaccia anche in un territorio che non controlla”, ha detto Pompeo riferendosi all’attacco in cui quattro americani (due forze speciali, un contractor e un civile del Pentagono) hanno perso la vita a metà gennaio – un kamikaze inviato dall’Is s’è fatto saltare in aria davanti a un ristorante che gli americani frequentavano in tranquillità durante pattugliamenti e incontri nella città al nord siriano; e l’attentato era un chiaro messaggio del Califfo che diceva: ci siamo, siamo nascosti ma non morti.

Pompeo ha sottolineato chiaramente davanti ai colleghi alleati – presente anche l’Italia, con il direttore degli affari politici della Farnesina, l’ambasciatore Sebastiano Cardi – che l’annuncio di Trump sul ritiro “non è la fine della lotta americana” allo Stato islamico, “una lotta che continueremo a condurre insieme a voi”. Il segretario di Stato ha avuto spesso il ruolo di bilanciamento, necessità diplomatica, su certe posizioni più rivoluzionarie del presidente. Poi ha aggiunto un dettaglio, non approfondito, che è molto interessante: “Vi invito a considerare le richieste che stiamo per farvi […] perché arriveranno molto presto”.

Ed è il ritorno sul solco trumpiano: è possibile che gli Stati Uniti nell’ambito di quello che il segretario chiama “un cambiamento tattico” chiedano agli alleati di aumentare il loro coinvolgimento nella lotta allo Stato islamico. (Altra nota: le nazioni della Coalizione sono 79, ma i raid mirati contro i baghdadisti, per esempio, sono stati condotti quasi esclusivamente dagli Stati Uniti, e ammontano a qualcosa come trecentomila in meno di quattro anni. Sono un costo economico che Washington da tempo chiede legittimamente di suddividere, un po’ come chiede ai membri Nato di aumentare gli investimenti. Trump è molto chiaro: se siamo alleati, dobbiamo dividerci ruoli e oneri).

Dobbiamo “essere più veloci nell’approccio, perché stiamo entrando in una fase di jihad decentralizzata” e questo richiede “massima condivisione di intelligence” e completa disponibilità nell’ingaggio contro l’Is, ha spiegato Pompeo. Trump, nel suo intervento di dieci minuti davanti ai diplomatici alleati, ha accennato a questa situazione. Ha ringraziato tutti i presenti – “un gruppo speciale di persone brillanti” – con un modo convincente che di solito non riserva a contesti multilaterali, ma ha ribadito che anche se “la nostra forza militare” ha spazzato via l’Is per come lo abbiamo conosciuto in questi ultimi quattro anni, resteranno “sezioni minuscole ma molto pericolose”, menti “malate” e “dementi”, da combattere “per molti anni a venire”. Una rassicurazione davanti al nervosismo degli alleati, che anticipa richieste di disponibilità.

(Foto: Twitter, @StateDept)

 

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