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Gli italiani dovrebbero scegliere l’Europa per amor proprio. Ecco perché. Parla Fubini

L’alternativa per l’Italia non è tra accettare l’integrazione europea e restare una nazione sovrana. La scelta è un’altra: tra l’Europa e qualche impero meno democratico e più lontano al quale finiremmo col doverci sottomettere“.  Il vicedirettore del Corriere della Sera Federico Fubini non ha dubbi: la strada europea non è l’unica che l’Italia possa percorrere, ma certamente quella preferibile. Perché l’altra opzione sarebbe peggiore: “Lo sanno bene i nostri sovranisti che stanno sempre su un aereo per Pechino o per Mosca: in questo contesto internazionale è impossibile pensare di poter essere una nazione pienamente sovrana viste le nostre dimensioni e le nostre fragilità“. E allora – ha affermato il giornalista in questa conversazione con Formiche.net – “meglio fare il gioco europeo, ma con maturità“.  Non perché ce lo imponga Bruxelles o chissà chi, ma perché ci conviene.

Non a caso il libro che Fubini ha appena dato alle stampe per Longanesi si intitola “Per amor proprio. Perché l’Italia deve smettere di odiare l’Europa (e di vergognarsi di sé stessa)“. Un testo che si concentra soprattutto su noi italiani, sulla nostra identità e sul nostro rapporto con le istituzioni europee, a proposito del quale il giornalista non ha esitato a parlare di disturbo bipolare: “Mi ricorda un po’ Zelig, il personaggio di Woody Allen: all’inizio così insicuro di sé da cercare sempre di mimetizzarsi e di assomigliare ai suoi interlocutori e poi, alla fine, così certo della propria identità da arrivare a prenderli a ombrellate quando in disaccordo con loro. In Italia è accaduto qualcosa di molto simile: siamo al punto di prendere a ombrellate gli altri quando si parla di Europa“.

Ambivalenza figlia dell’anomalia italiana – ha sottolineato Fubini – “quella di un Paese uscito dalla crisi del reddito medio dalla porta sbagliata, con il metodo della creazione del consenso attraverso il debito pubblico“. La cui crescita esponenziale ha alimentato gli squilibri economici che stiamo ancora oggi pagando, ma pure influito sulle convinzioni, e poi le scelte, della classe dirigente italiana: “Si è diffusa la visione in buona fede, e per certi aspetti pure nobile, secondo cui l’Europa rappresentava il vincolo esterno che avrebbe salvato l’Italia. L’idea di Guido Carli quando fu firmato il Trattato di Maastricht, di Carlo Azeglio Ciampi, di Mario Monti. Una concezione che ha pure servito il Paese, nel senso che ad esempio senza Maastricht molto probabilmente avremmo fatto default com’è poi accaduto alla Grecia. A metà degli anni ’90, solo per dire, gli interessi sul debito erano l’11% sul prodotto interno lordo mentre oggi sono poco più del 3%“. Il progresso dunque c’è stato, pure rilevante, così come però le ripercussioni in termini politici e psicologici: “Tutto ciò, detto semplicemente, ha generato una gigantesca frustrazione nel Paese. Abbiamo dato agli italiani un modello – vedi la germanizzazione, un’idea razionale e corretta ma difficilmente realizzabile – ma poi non siamo stati in grado di seguirlo. E, inevitabilmente, ne è seguita una crisi di rigetto, verso il modello, inarrivabile, e verso coloro che lo avevano indicato. Il principio di imitazione ha generato una crisi psicologica nel nostro Paese. E siamo diventati completamente bipolari: da un eccesso all’altro“.

Anche in quest’ottica si spiega la contrapposizione, quasi partigiana, cui si assiste nel nostro Paese quando si parla di Europa: da un lato gli anti-europeisti convinti, dall’altro gli europeisti militanti incapaci di qualsivoglia critica nei confronti di Bruxelles. Una parte, quest’ultima, cui Fubini ha dedicato non poche pagine del suo libro: “In nessun’altro Paese esiste un ceto europeista come il nostro che ha reso tabù ogni critica all’Europa. Un segno di provincialismo totale e di immaturità civile. La critica è l’essenza della democrazia che serve per convogliare il dissenso e non per incanalare il consenso. In questi anni è accaduto tutto questo mentre, d’altro canto, l’idea dell’infallibilità del vincolo esterno è naufragata“. Con quale conseguenza politica? “Regalare agli anti-europeisti e ai nazionalisti sciovinisti l’arma più potente: il monopolio della critica all’Europa. Soprattutto considerato che in quelle fasi l’Europa di errori ne ha commessi di clamorosi“. Un esempio? “Il bail-in: era chiaro fin dall’inizio che quella direttiva era stata interpretata in maniera troppo severa nei nostri confronti. Ce l’hanno imposto sulle 4 banche – Etruria, Chieti, Marche e Ferrara – e hanno pure resuscitato i cinquestelle reduci dalla batosta elettorale delle europee del 2014. Poi, qualche settimana fa, è arrivata la sentenza con cui la Corte di Giustizia ha riconosciuto come la Commissione europea abbia avuto torto nell’applicare in quel modo il bail-in. Avremmo potuto evitare tutto questo ma all’epoca tra gli europeisti, a cui mi iscrivo pienamente, eravamo in pochi a dire che si trattava di un’errore gravissimo“.

Una via mediana – quella, appunto, a metà tra l’adesione convinta all’Europa e la critica verso alcune delle sue politiche – che ricorda molto la strada intrapresa da Matteo Renzi nei suoi anni al governo. “Europa sì, ma non così,”, recitava uno slogan utilizzato in quel periodo dall’ex presidente del Consiglio. Posizione che gli causò le contestazioni di entrambe le fazioni, forse soprattutto da parte degli europeisti più dogmatici: “Renzi ha commesso molti errori e come giornalista non gli ho fatto sconti. Ma da questo punto vista ha avuto una visione moderna che poi però non è riuscito ad articolare nel migliore dei modi: l’idea che pure gli europeisti potessero criticare l’Europa quando necessario. E per questo è stato guardato con profondo sospetto. Un segno dell’immaturità italiana“.

In fondo il problema è sempre quello: la polarizzazione del dibattito pubblico e politico quando si parla di Europa: “Il prodotto di un complesso di inferiorità che vive l’Italia: come Alberto Sordi che porta la moglie nell’alta società e poi le raccomanda di non farsi riconoscere“. Un tipo di approccio che, secondo Fubini, si può rintracciare, ad esempio, nella vicenda di Federica Mogherini: “Da quando ricopre il ruolo di Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza è come se avesse cercato in tutti i modi di far dimenticare di essere il commissario europeo espresso dall’Italia, al punto di  arrivare di fatto a non parlare con la stampa italiana. Un classico. Un po’ come in Pane e cioccolata, con Nino Manfredi con i baffoni tinti di biondo per sembrare uno svizzero“. Per non parlare di Mario Monti e della sua storia politica, cui Fubini fa riferimento nel libro: prima osannato come salvatore della patria, poi attaccato da tutti: “Un’esperienza che ci dice quanto noi italiani adoriamo trovare un capro espiatorio. Per carità, Monti ha certamente commesso errori ma non ricordo che ci fosse la fila di persone interessate ad assumersi quelle responsabilità in quel momento storico. E’ stato mandato avanti a fare il lavoro più difficile, dopodiché tutti gli sono piombati addosso. Francamente lo trovo uno dei punti più bassi della storia recente del nostro Paese e non lo dico per difenderlo. E’ proprio la nostra psicologia a essere in gioco“.

Per spiegare la diffidenza, talvolta l’ostilità, con cui pure gli italiani in molti casi guardano oggi all’Europa, la lente principale rimane, comunque, quella economica: “Iniziamo col dire che si è rifiutata troppo a lungo l’idea che la globalizzazione e la trasformazione tecnologica potessero generare sia vincenti che perdenti. C’era la convinzione che saremmo stati meglio tutti. Nel lungo termine forse sì, ma nel lungo termine saremo anche tutti morti“. E i perdenti, inevitabilmente, ci sono stati. Solo che l’Unione europea, nella divisione dei compiti che era stata decisa in qualche a modo a tavolino, ha finito con l’occuparsi di altro: “Ha cercato di facilitare la transizione verso la globalizzazione, di rendere il sistema più efficiente, di permettere l’ingresso dei Paesi dell’Europa centrale e orientale nel mercato europeo“. E i cosiddetti perdenti? “Il lavoro in tal senso è stato lasciato ai governi nazionali, nel frattempo alle prese con l’austerity e con la crisi finanziaria, che ha evidenziato tutta l’insufficienza dell’architettura dell’euro senza meccanismi di stabilizzazione“.

E infine, ma non in ordine di importanza, il tema della deriva di alcuni Paesi dell’Europa orientale, sempre più lontani dai valori fondanti l’Unione europea, che però fatica ancora a mettere in campo una possibile reazione. “La verità è che prevale troppo la realpolitik“, ha commentato a questo proposito Fubini. Che poi ha spiegato: “Ad esempio i partiti centristi tedeschi non spingeranno mai per espellere Viktor Orbàn dal Ppe, semplicemente perché sono attratti dall’industria tedesca a cui il presidente ungherese offre la possibilità di delocalizzare a tasse zero o comunque bassissime. La misura non sarà mai colma finché prevarrà questa tipo di atteggiamento, ma certo bisogna parlarne. Trovo comunque pericoloso che la democrazia possa inquinarsi e incrinarsi in un Paese dell’Unione europea. E’ un precedente terribile: si sta dando agli altri il messaggio che è possibile, che può accadere. Esattamente come avvenne tra i Paesi socialisti alla Caduta del Muro di Berlino, ma all’inverso. Il precedente di Orban è una mela marcia pericolosissima contro cui l’Europa è rimasta inerte“.

Eppure l’Unione – ha concluso Fubini – rimane la migliore alternativa possibile: “Ma la bacchetta magica non esiste. Dobbiamo cambiare ciò che non funziona ma ci vorrà tempo. Un po’ come la goccia che scava la roccia. Con buon senso, coraggio e lucidità possiamo riuscirci“.

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