Un nuovo round cinese dei negoziati sul commercio tra Washington e Pechino si è concluso ieri sotto quelli che il segretario al Tesoro americano, Steve Mnuchin, ha definito “incontri produttivi”. L’appuntamento è ora rimandato alla prossima settimana per un altro meeting nella capitale americana.
L’ultima serie di colloqui era di quelle chiamate di “alto livello”: in Cina la delegazione Usa era guidata dal segretario Mnuchin e dal rappresentate per il Commercio della Casa Bianca, Robert Lighthizer, mentre per il governo cinese c’era il vicepremier Liu He (“economic czar” è la definizione con cui i media americani indicano il funzionario per mettere subito in chiaro il potere decisionale che sulle questioni di carattere economico-commerciale gli ha affidato il presidente Xi Jinping; sarà sempre lui a guidare la delegazione che mercoledì prossimo arriverà a Washington).
Il fatto che questi negoziati procedano – anche prolungando le riunioni più del previsto, come il caso di quest’ultima volta – è di per sé un segnale positivo, recepito come tale dai mercati. Mercati che, da quando Washington ha accordato di prolungare i colloqui anche oltre l’ultimatum imposto in un faccia a faccia tra Donald Trump e Xi a margine dell’ultimo G20, hanno messo in stand by la questione e deciso di adottare una lettura attendista (ma essenzialmente ottimistica).
Val la pena di ricordare che questi negoziati si svolgono in mezzo a un confronto globale tra le due potenze, prime due economie globali, che coinvolge un ampio spettro di situazioni: dal prolungamento di interessi in ambiti ibridi (come l’Onu, o nel campo della crisi venezuelana, o sul Mediterraneo, o ancora su aspetti strategici come l’adesione italiana alla Nuova Via della Seta e la penetrazione politica cinese in Europa), alle dimostrazioni muscolari semi-militari su dossier caldi come Taiwan e il Mar Cinese.
Nelle ultime due settimane, quella che veniva chiamata la “guerra dei dazi” (dopo lo scambio di misure tariffarie, prima alzate dagli Stati Uniti e poi le contromisure prese per rappresaglia dalla Cina), è uscita dall’attenzione delle cronache, mentre subiva una sorta di sferzata. I funzionari americani hanno aumentato le pressioni sulla controparte cinese, minacciando di uscire dai talks, dando semaforo verde a un nuovo set di aumenti tariffari sulle importazioni. Aumenti che avrebbero così coperto tutto l’insieme di prodotti che la Cina esporta negli Stati Uniti.
“Non andrà avanti all’infinito”, ha detto il capo dello Staff della Casa Bianca, Mick Mulvaney, alla Milken Institute Global Conference di Los Angeles: “A un certo punto in ogni trattativa si va da una parte o dall’altra” e questo lo si saprà al massimo “nelle prossime due settimane”. Contromossa cinese davanti alla dimostrazione di impazienza statunitense dopo mesi di commenti positivi e accettazione dei buoni propositi: Pechino ha varato un sistema normativo per aprire maggiormente la propria industria finanziaria, una delle richieste per cui è pressato dai vari attori internazionali che lavorano nel business con la Cina.
Mnuchin, intervenendo alla trasmissione Fox “Mornings with Maria”, ha detto che la Casa Bianca non ha “una febbre” per finalizzare l’accordo, mostrando come la sua sia una linea più morbida rispetto a quella di altri funzionari che circondano lo Studio Ovale (come Mulvaney, o lo stesso Lighthizer). Approccio tipico delle doppie anime dell’amministrazione Trump.
La situazione sostanzialmente è questa: Pechino è pressata dalle tariffe che gli Stati Uniti hanno applicato su circa 250 miliardi di prodotti cinesi esportati nel mercato americano, e chiede un alleggerimento (più o meno tornare allo status quo ante); gli Stati Uniti vogliono chiudere un qualche genere di accordo prima di procedere. Per Washington il senso del deal deve essere però ampio: se la riduzione dello sbilancio commerciale rappresenta un obiettivo tattico quanto politico (che Trump potrebbe rivendere come un successo da spendere in campagna elettorale), il valore strategico dell’intesa su cui i negoziatori stanno lavorando riguarda questioni come il furto di proprietà intellettuale, la cessione forzata di know how tecnologico, l’apertura del mercato cinese a maggiori settori d’investimento, la concorrenza trasparente e gli aiuti statali di Pechino.