Il risultato elettorale dell’Umbria può essere spiegato con due sole osservazioni: la prima riguardante i numeri; la seconda pertinente alla storia politica della regione. Da ambedue i lati la medaglia appare pesante, suggellata da una registrazione di successo assolutamente straordinaria della destra.
I numeri sono, in effetti, incontrovertibili. Non soltanto Lega, FdI e FI vincono, ma il centrodestra ottiene insieme, unito, l’obiettivo concreto di questa roccaforte, permettendosi perfino lo spettacolo di una goleada. Donatella Tesei è governatrice con venti punti di distacco dal cartello elettorale giallorosso. Anche la storia dell’Umbria tuttavia è esplicativa del tracollo, molto più che episodico, delle sinistre nazionali. Il Pci aveva nella piccola, verde e meravigliosa regione centrale dell’Italia una casamatta del potere inespugnabile, restata sostanzialmente nelle mani della stessa classe dirigente per tutto il Dopoguerra.
Cosa è successo? Semplice: vi è stata una severa condanna dell’amministrazione uscente, con annessa la constatazione della sua irriformabilità intrinseca; e vi è stata pure una fiducia che dal profondo dei piccoli comuni è salita fino a Perugia per il centrodestra, dando un mandato importante al più identitario dei partiti politici: la Lega. Non è da trascurare, è ovvio, il raddoppio elettorale di Fratelli d’Italia, ma il vero nodo è la ramificazione territoriale di Salvini, ossia la capacità di portare in zone di campagna così comunitarie e orgogliose, una risposta di prossimità e di riconoscibilità interna della politica nazionale che è il fatto strepitoso di tutta questa vicenda.
Riprendendo una delle battute del celebre, ormai, Porta a Porta tra Salvini e Renzi, si può dire che abbiamo assistito a una vera e propria vittoria della logica “pro loco” sul tradizionale sistema di potere centralizzato che, per tanti decenni ha creato, ha impostato e garantito lo sradicamento ideologico attuale della sinistra dalla vita delle persone.
D’altronde, l’alleanza stessa Pd-5 Stelle ha in tutti i sensi il volto di un artificio, una sperimentazione chimica a metà strada tra il retorico e il desueto, che trova riscontri unicamente nel sofisticato costrutto dirigenziale e dirigista della sua nomenclatura romana.
Ed è proprio tale dirigenza Pd che si è screditata, umiliandosi con poterucoli squallidi, finito in un patto contro natura di arroccata autodifesa addirittura con i suoi più acerrimi nemici grillini, spingendo così la carovana riformatrice inesorabilmente nel mattatoio lombardo.
Salvini, di suo, ha fatto una campagna elettorale straordinaria, onnipresente, capillare, umile, convincente, battendo comuni piccoli, piazze dimenticate, comunità lasciate nella solitudine e nella desolazione da una sinistra arrogante, con il complesso della propria titanica onnipotenza.
In Italia, questo è il messaggio umbro, la destra si afferma ovunque perché sta nel popolo, perché stabilisce un contatto per fusione con la cittadinanza, perché fisicamente è lì dove nessun altro si degna di andare.
Non che Zingaretti possa e debba inseguire Salvini nel suo terreno personale, non che Renzi possa andare in giro per i rioni paesani a scimmiottare il proprio alter ego: tutto ciò è di destra, e sarebbe ridicolo che lo facessero in modo posticcio coloro che l’avversano per definizione. Ma la popolarità della Lega e di FdI è il requiem della sinistra italiana, anche nella sua generalità localizzata, e il declino occidentale di una lunga parabola filosofica progressista.
La politica per tutti si fa generando consenso, acchiappando in qualche modo lo spirito delle persone, affinché l’elettore senta il votare per un partito come un atto necessario ed urgente per se stesso. Se la politica non trova un modo per essere così, allora non siamo più nel paradigma duro ed entusiasmante della democrazia, ma in quello fintamente dignitoso e moralista del deceduto socialismo reale.
Quello che oggi, a distanza di tre decenni dalla caduta del Muro di Berlino, non può essere fatto più è esibire ambizioni personali come significative per gli altri, richiamandosi ad un senso lobbistico o, peggio ancora, fintamente intellettuale, nella convinzione di avere una superiorità antropologica, la quale, grazie a Dio, non tocca più il cuore della gente comune. Non vi sono ragioni più remote, razionali e generali che possano giustificare il montanelliano turarsi il naso per votare gli ottimati, semplicemente perché nessuno lo è e può vantare di esserlo. Esiste esclusivamente chi viene a casa tua e ti dice che può aiutarti a sbarazzarti definitivamente dei fronzoli cortigiani, dei profittatori, dei lacchè interessati, offrendoti l’indispensabile per vivere: sicurezza, solidità di valori ereditati, tregua fiscale e ruolo che ti spetta per natura come cittadino sovrano a casa tua.
La sinistra vive perciò la più prepotente crisi d’identità della sua storia: e la incontra nei suoi luoghi di sempre, semplicemente perché la democrazia stessa è cambiata, mutando il modo in cui la partecipazione dei cittadini vuole oggi realizzarsi.
Un partito, sia esso giallo o verde, non deve e non può cambiare mai una nazione. I cittadini non vogliono hegelianamente diventare qualcosa in più e di diverso da se stessi: vogliono semmai sbarazzarsi definitivamente della macchina da guerra dissanguante del potere progressista. La nazione vuole essere se stessa, vuole avere la propria politica, fatta di identificazione, fedeltà, fiducia, prossimità spirituale e materiale con i propri governanti.
In ciò Renzi, al pari di Zingaretti e Di Maio, non è nulla di diverso dalla sinistra di sempre. Una cosa è voler essere, infatti, “per sé” guida politica; altra cosa voler difendere la realtà personale, semplice ed effettiva “degli altri”, stando al di sopra degli altri.
Una politica vincente è realista, è di servizio, ambiziosa ma distaccata dal potere assoluto, è la politica vincente della destra di oggi, la quale è e resta necessariamente contro l’immaginario della sinistra: gialla, rossa o arancione che sia. Salvini esprime l’anima squisitamente conservatrice dell’italianità, attenta ad essere in loco fedele ai cittadini, e non intenta a voler portare la vita della gente nel quadro di visioni troppo alte e lungimiranti da non poter esistere al di fuori degli interessi soggettivi e materiali di chi si propone come guida di un elettorato anonimo.
L’Umbria, insomma, dice della vittoria “pro loco” della destra popolare, ed è parimenti la sconfitta della volontà di potere universalistica predisposta dalla sinistra eterna, una cultura fatta di élite, di retorica migliorista, di faide da ottimati irriducibili e di tradimenti trasformisti di basso squallore, il cui risultato è la machiavellica fuga “democratica” dalla democrazia, perseguita, al solito, con colpi ermeneutici di presunta costituzionalità.